Recensioni / Francesco Nappo, I passeri di fango

Francesco Nappo, I passeri di fango, postfazione di Emanuele Dattilo, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 182, € 16.

La nuova raccolta poetica di Francesco Nappo inizia nel segno di Trakl, con un breve e intenso trittico: A Georg Trakl, La morte di Trakl, Sulla tomba di Trakl. Un omaggio così esposto, quasi una dilatata epigrafe, non è certo un episodio estemporaneo o un mero esercizio di metapoesia; rimanda, invece, a una consonanza che è di per sé indizio di una tradizione, una di quelle tradizioni che hanno la vocazione, si direbbe, a interrompersi e perciò a riapparire in modo carsico. L’incipit de I passeri di fango, insomma, induce a riflettere e sembra quasi sfidare il lettore che volesse appoggiarsi comodamente, come a una zona ben certificata del Novecento poetico, ai versi di Nappo in “dialetto” napoletano, con la loro precisa topografia e il proprio carico memoriale smagliante, iridescente: per esempio Addu l’aucellaro (Dall’uccellaio), Pasca ‘Pifania (Pasqua Epifania), Turnanno ‘a Piererotta a cavalluccio ‘e pàtemo (Ritorno dalla Piedigrotta a cavalluccio di mio padre), ‘A notte ‘e San Silvestro (La notte di San Silvestro), Jennaro a Ognissante (Gennaro ad Ognissanti). Sono queste tra le riuscite più evidenti di un libro che ne conta molte: l’infanzia con i suoi «prodigi» e le sue «dolcissime catastrofi» vi si specchia limpidamente, rifrangendosi nelle pagine a fronte dei diversi registri linguistici, saggi di traduzione bilingue di un originale anteriore e perduto in una «nobil lingua / bambina e incantata» (Amalia delle spezie). Idioma che è una patria, Heimat a cui tornare nel ricordo (c’è pure un Racconto del Paradiso a rammentarci di nuovo Trakl, con l’antecedente di Hölderlin), ma che serba in sé le verità di una mai scordata Lectio materna: «E a me narravi leggende vere, / il santo enigma del raro bene / ed il prodigio del male assiduo» (p. 53). Eppure il fondo non è elegiaco, e le frequenti schegge di latino liturgico o biblico rinviano piuttosto (come in Ranchetti, che non per caso fu tra i primissimi a individuare la qualità del poeta) alla dimensione innica, di lunga durata, notata sin dagli esordi di Nappo (Genere, 1996) da Giorgio Agamben. «Misericorde ed ìnnode», allora, è detto il «canto d’uccelli» che si leva nell’«aurora incandescente» (p. 75): definizione che investe la poesia dell’autore nel suo insieme e nei suoi punti più alti, dove ogni novecentismo residuo è bruciato alla viva fiamma di una visionarietà esuberante e policroma; e tanto più è calzante, tale definizione, in quanto ospita una di quelle sdrucciole che proliferano ovunque nei libri di Nappo, in Passeri di fango moltiplicandosi persino all’interno dell’unità versale come per una deriva che si genera da sé stessa, al limite della glossolalia e come assumendo l’eredità delle rime. Ma se c’è in Nappo l’enunciazione ellittica ed esclamativa che è del momento estatico, affermazione che si celebra in immagini pregnanti, assolute ed astanti (e può essere l’Italsider come una marina tirrenica o ionica), c’è anche un elemento tragico che rinvia ad una nozione del tempo di stampo escatologico (dov’è una tangenza più profonda con Trakl): la scena sacrificale dell’Ora nona (p. 148) non sarà, perciò, una iconografia irrelata o scissa dall’ampio repertorio di epifanie naturali che affiorano nei testi («Come purpurei steli nel rosaio / lucenti ed ebbri di cessata pioggia / nell’incendio d’un sole autunnale»), bensì fornisce lo sfondo ultimo sul quale i colori del mondo e anche i ricordi (e anche i destini) si stagliano nel loro struggente nitore. Il tempo che accoglie e scandisce le apparizioni mediterranee sa bene il «vento di nulla» e la «luce di nulla», tutto quel che spira e si spegne tra Getsemani e la «fradicia croce» del Golgota: così quanto riecheggia nella Vox amissa, «Di angeli coristi alto / silenzio, consegnata memoria», allude ad altro tempo ancora, dove futuro e passato si guardino e ricongiungano senza più angoscia; e così l’attesa si muta in litania sonora, «prece» individuale e collettiva, in cui colto e plebeo si ibridano a vicenda. Forse, infine, le apparizioni umili e sublimi raccolte con devozione da Nappo lungo la sua strada per conservare il dono e la promessa di quel tempo e di quell’idioma non volerebbero via - miracolosamente come i passeri del vangelo apocrifo in epigrafe al libro - se le immagini splendenti e i frammenti che lo costellano non fossero calati in un canovaccio che prevede squarci di ordine narrativo, tali da conferire un senso allegorico ai nuclei isolati e dispersi nel libro, per esempio il «mutilo remo su un greto pietroso» che «può redimer fosco naufragio» (Sognarono i Lidii oriundo un paese), più prossimo a Rebora che agli ossi di seppia montaliani. Appartengono a questa stirpe allegorica i «ciechi del Colosimo» di Santa Teresa degli Scalzi, «a passeggio nella notte, / coi bianchi bastoni rabdomanti», lo «strascinafacenne» di P’a nonna Amaliella, che (informa una nota, p. 156) era «lo scrivano ambulante che aiutava gli analfabeti a scrivere, leggere o sbrigar pratiche», insieme ai Gheographòi della lirica omonima (p. 43) che memorabilmente (come in un vasto scenario di Lorrain rivisitato dall’«amico e maestro» di Sognarono i Lidii, Ruggero Savinio), narravano «la luce dimentica e lieta tra / voci d’emporii e grida di ciurme».