Ubi ius ibi societas; ubi societas ibi ius. Questa la lapidaria e dirompente tesi sostenuta da uno dei più importanti e allo stesso tempo controversi giuristi italiani del XX secolo. Il riferimento è a Santi Romano, maestro di diritto, accademico, presidente del Consiglio di Stato e infine senatore durante uno dei periodi più bui della storia italiana, quello del fascismo. Tuttavia, poco importa oggi rimuginare sugli evidenti errori di valutazione commessi in campo politico da Romano; questione su cui la critica si è già peraltro ampiamente dibattuta. La forza dirompente di Santi Romano non nasce dalle sue vicende biografiche, bensì dalla sua riflessione giuridica contenuta, in particolare, in un testo che ha fatto scuola e che è stato lodato da giganti del pensiero giuridico novecentesco come Carl Schmitt e Norberto Bobbio, che non esitò a definirlo “un aureo libretto”. L’opera fu pubblicata nel 1918 con il titolo L’ordinamento giuridico, apparve poi la seconda edizione nel 1946 con l’aggiunta di un apparato di commenti e, dopo essere stata tradotta in varie lingue e recentemente anche in inglese, finalmente – in occasione del centenario dalla sua prima apparizione – è stata ristampata anche in italiano nell’ottobre 2018 dall’editore Quodlibet (a cui va il merito di aver ripubblicato anche un altro testo chiave della riflessione giuridica italiana, Il diritto dei privati di Widar Cesarini Sforza, con la curatela di Michele Spanò).
Come afferma Mariano Croce, curatore della nuova edizione de L’ordinamento giuridico e autore di una notevolissima postfazione, anche se il libro ha compiuto cent’anni «la sua capacità di fare il presente tira via ogni ruga e gli restituisce un’energia vitale che si riverbera in ogni pagina» (p. 188). E ciò che colpisce maggiormente il lettore odierno di Santi Romano è davvero la sua capacità di suscitare quella particolarissima sensazione secondo la quale le parole del testo sembrano essere state scritte per noi e parlare di noi, sensazione che solo i grandi autori «rivoluzionari» riescono a provocare. La ragione è presto detta: a Romano non interessa analizzare il diritto nel particolare contesto politico e sociale che ha davanti ai suoi occhi – analisi che legherebbe la sua posizione teorica ad una spendibilità immediata e momentanea. Egli, al contrario, si preoccupa di indagare il diritto come «dispositivo» – uso qui forse indebitamente ma non ingenuamente un concetto deleuziano, autore in cui è presente, anche se sottotraccia, una profonda riflessione giuridica in cui si possono rinvenire delle impronte di istituzionalismo. Un dispositivo è sempre concreto e si presenta come un groviglio di linee e vettori che tracciano processi, movimenti, fratture; non è altro che una macchina per far vedere e far parlare e, al fine di districare le linee di un dispositivo, bisogna innanzitutto piazzarsi sulle linee stesse.
Questo è il punto di partenza di Romano, che si instaura sulle linee del diritto rivendicando una prospettiva tutta interna al giuridico: una descrizione del dispositivo che manifesti il punto di vista del dispositivo stesso e che non si accontenti di una narrazione dall’esterno, prodotta da altre discipline. L’autore de L’ordinamento giuridico si pone, perciò, a strenua difesa dell’autonomia del campo giuridico e ciò implica anche un affrancamento del diritto dai suoi esiti extra-giuridici (politici, morali). Ma che cosa vede, allora, Romano guardando le linee mobili del diritto dall’interno? Osserva, innanzitutto, una piena coincidenza tra il diritto e l’istituzione poiché, da un lato, il diritto non esiste come entità meramente formale (evidente stoccata al positivismo giuridico), ma solo quando si concreta e acquista corpo nell’istituzione, e, dall’altro lato, «il diritto è il principio vitale di ogni istituzione, ciò che anima e tiene uniti i vari elementi di cui questa risulta» (p. 52). In secondo luogo, si accorge che qualsiasi istituzione, ossia qualsiasi corpo sociale che goda di un’organizzazione in grado di produrre delle curve di visibilità e di enunciazione relativamente stabili, è un ordinamento giuridico e non esiste nessun criterio che possa legittimare dal punto di vista del diritto la superiorità o il monopolio di un ordinamento sugli altri. Ne consegue un pluralismo giuridico che pone lo Stato non solo come un prodotto del diritto, piuttosto che come il suo produttore, ma anche come un’istituzione fra le altre, per nulla differente dalla Chiesa, da un’organizzazione criminale o da un circolo culturale.
Da questa commistione di istituzionalismo e pluralismo giuridico che caratterizza L’ordinamento giuridico ne derivano almeno due conseguenze importanti capaci di attualizzarsi, forse oggi più che allora, come funzioni specifiche del diritto. Ciascun dispositivo si compone, infatti, di linee di forza e di soggettivazione che si producono dentro il dispositivo stesso. Il primo compito di un dispositivo sarà, dunque, quello di rendere possibile questa produzione di soggettività. Santi Romano, identificando il diritto con un’organizzazione concreta e assegnando la stessa rilevanza giuridica a qualsiasi istituzione, non fa che questo: aprire il campo giuridico ad una produzione proliferante di soggettività istituzionali. Ciò che preme sottolineare è che queste linee di soggettivazione che abitano il dispositivo del diritto includono qualsiasi micro-concatenamento sociale e qualsiasi assemblaggio relazionale che sia in grado di darsi una struttura organizzativa variamente durevole. Con ciò Romano fa rientrare nel campo giuridico anche le pieghe e gli interstizi del sociale, dotando loro, peraltro, della stessa potenza delle grandi organizzazioni, compresa quella statale. La prima funzione del dispositivo giuridico coincide, allora, con la capacità di farsi attraversare da tutte le linee di forza socio-istituzionali.
Insieme a questo carattere di permeabilità, l’altro ruolo primario del giuridico secondo la prospettiva aperta da Romano è quello di trasformarsi in macchina tecnica in grado di far vedere e far parlare le soggettività che lo compongono. Riprendendo le parole di Mariano Croce, il diritto diviene «mediazione» poiché, rendendo visibili le relazioni e i conflitti sociali e traducendoli al contempo in linguaggio giuridico, produce su di essi degli effetti positivi di composizione. Il dispositivo giuridico, quindi, rivendica una propria performatività dal momento che, rendendo possibile il comporsi di nuove istituzioni, rivitalizza il sociale donandogli una nuova carica trasformativa.
E se è vero che Santi Romano sopravvalutò la forza del diritto poiché lo Stato italiano della prima metà del XX secolo fu in grado di subordinarlo completamente al volere politico, tuttavia vale la pena interrogarsi con e oltre Romano se il dispositivo giuridico possa oggi, in un momento di profonda crisi della politica, riconquistare quelle funzioni di permeabilità e composizione che L’ordinamento giuridico aveva magistralmente delineato.