Recensioni / Il pianeta Melancholia

2011 (?). Il pianeta Melancholia sta per abbattersi sulla Terra. Rimasta sola con la sorella e il nipote, la giovane Justine assiste all’evento con calma implacabile. Nel giro di una notte (durante la festa del suo matrimonio) ha bruciato amore, carriera e affetti: perché lei sa – ha sempre saputo in fondo – quanto siano vacue le lusinghe del ‘mondano’ e inutili gli strumenti della scienza (il sofisticato telescopio del cognato) di fronte alla necessità della catastrofe. Stiamo parlando del finale di Melancholia, celebre film di Lars Von Trier che il regista svedese ha astutamente spacciato come un film sulla depressione, ma che, a una visione più attenta, si disvela allegoria arcana, irriducibile ai suoi stessi elementi compositivi. Allegoria che rinvia alla madre di tutte le allegorie arcane, la celebre incisione di Dürer Melencolia I.
Datata 1514, Melencolia I fa parte, insieme a Il cavaliere la morte e il diavolo e a San Gerolamo nella cella, del trittico detto Meisterstiche. Secondo l’interpretazione più diffusa, le tre incisioni rappresentano le virtù intellettuali, le virtù morali e le virtù teologiche. Ma se il «Cavaliere» e il «Santo» non offrono particolari difficoltà ermeneutiche, la donna alata che fissa il cielo di Saturno, circondata da una congerie di oggetti triviali o sublimi, possiede una forza enigmatica capace di esercitare un’instancabile fascinazione. E proprio Saturno, pianeta della lentezza e della sventura non meno che della genialità, sembra patrocinare le traversie del saggio di Panofsky e Saxl (1924) – qui tradotto per la prima volta in italiano con tutta la sua ricchezza di apparati – ripreso e integrato da Raymond Klibansky nel 1964 in Saturno e la malinconia, attualmente (assurdamente) irreperibile in edizione italiana.
Quanto alla tormentata nascita del libro, rimandiamo all’ottima introduzione di Claudia Wedepohl, qui basti dire che il testo nasce da una forte volontà di Aby Warburg sulla scorta degli studi pionieristici dello storico dell’arte austriaco Karl Ghielow, e che si tratta in ultima istanza di un ‘tradimento’. Warburg, infatti, (destinato di lì a poco a essere ricoverato per disturbi maniaco depressivi) aveva attribuito all’incisione di Dürer valenze senz’altro ottimistiche: «La scoperta dell’uomo moderno che, poggiando su se stesso, cerca nella natura la legge per interrogare il futuro attraverso la scienza»; Panofsky e Saxl (a cui il maestro aveva affidato la stesura dell’opera) perverranno, invece, a una diversa lettura. Il disordine desolante che circonda la solitudine della donna alata verrà interpretato, in definitiva, per quel che suggestivamente appare: un caos in cui i numerosi simboli trovano requie in una sorta di cristallizzazione senza pace.
Quel che conta, tuttavia, non è solo il risultato, ma soprattutto il metodo. Metodo che rappresenta la prima sintesi programmatica del rinnovamento inaugurato da Warburg nell’ambito degli studi storico artistici e che mostra plasticamente come la fede del coltissimo mecenate amburghese circa la ‘sopravvivenza dell’antico’ non fosse statica ricerca archeologica, ma comprensione profonda di principi dinamici e viventi.
Partendo dalle fonti antiche e tardo antiche, passando per il Medioevo fino al Rinascimento, Panofsky e Saxl vanno dunque a caccia dei presupposti letterari e iconografici che preludono alla concezione düreriana, allestendo una ricca fenomenologia di Saturno e del temperamento che gli è associato. Umido e secco, folle e geniale, dotato di veggenza e sventurato, arido e generativo il temperamento malinconico – come il pianeta da cui è soggiogato – è sempre recettacolo di ambivalenza: un’ambivalenza che con pesi e sfumature cangianti lo accompagna attraverso i secoli in un prevalere ora della valenza nosologica (nell’astrologia araba e in buona parte del Medioevo), ora della valenza morale (là dove si confonde col peccato capitale dell’accidia), ora della valenza destinale: sintomo di creatività intellettuale che si innalza a partire dallo sconforto depressivo. Via via quello che prima era un temperamento tra gli altri si guadagna lo statuto di emblema. Malinconia.
Ed è così che la sorprende Dürer: dopo che i secoli hanno depositato ai suoi piedi (ma anche alle sue spalle e nel suo cielo) i simboli e i segni di Saturno. E così ce la consegna: incastonata in un caos immobile, colta nella tetra pensosità di chi sembra aver rinunciato non solo a conoscere le misure del mondo (il compasso abbandonato) ma anche a esorcizzare gli amari influssi saturnini (dal quadrato magico, ovvero talismano di Giove, che sovrasta la donna alata, ad altri simboli che indicano i rimedi suggeriti dal Grande Malinconico Marsilio Ficino nel De Vita Triplici).
«Tragico destino di uno spirito umano che in virtù della propria legge interiore si vede costretto entro limiti che non può sorvolare e che tuttavia vorrebbe sorvolare, rimuginando con grave tristezza, immerso nel sentimento di un’incurabile, intima insufficienza» per Panofsky e Saxl Melencolia I è soprattutto l’autoritratto spirituale di Dürer che, proprio in quegli anni,aveva rinunciato a scovare il segreto matematico della bellezza e confessava «ma cosa sia la bellezza, io non lo so». Per poi aggiungere: «Infatti la menzogna è nella nostra conoscenza, e l’oscurità così saldamente confitta in noi che anche il nostro cercare a testoni fallisce».
Testo amato, dibattuto, criticato, lo studio pionieristico di Panofsky e Saxl fu letto e apprezzato da Walter Benjamin che all’incisione di Dürer e al tema della Malinconia dedica densissime pagine ne Il dramma barocco tedesco , confrontandosi, non senza una certa ambiguità, con l’interpretazione dei due autori; ma per questo rimandiamo al bell’intervento conclusivo del curatore De Vito, limitandoci, in questa sede, a osservare che su quel libro (e sull’immagine che ne è scaturigine) si incrociarono, agli inizi del secolo scorso, le menti più avventurose di una generazione, quasi a scongiurare gli effetti pietrificanti di Saturno nell’atto stesso del rappresentarli, in un gesto che si configurerà compito di una vita intera per Jean Starobinski a cui dobbiamo i più mirabili saggi sui rapporti tra malinconia e scrittura.
Malinconia, oggi, continua a baluginare per frammenti in un universo che, dominato da una psichiatria sempre più antiumanistica, ha deciso di schiacciarla nell’uniforme (ma informe) categoria della depressione: spogliandola di ogni ricchezza storica, mitica e catartica. Eppure, seguendo il filo d’argento della sua ‘sopravvivenza’ mimetica, anche il senso di impotenza e di vuoto a cui sembra ormai consegnata la vita intellettuale potrebbe rigenerarsi in forme nuove, esorcizzando nella rappresentazione infinita gli influssi pietrificanti di Saturno.