Recensioni / Luigi Malerba e Roma: storia di schifo e d’amore

Roma è impossibile pensarla tutta insieme. Non è solo una città, è una città dentro la città dentro la città dentro la città, che non è mai uguale a sé stessa, si contraddice spesso, tutti i giorni, da un quartiere all’altro, da un piano all’altro, perché sì, Roma ha almeno tre piani, quello di sotto dove c’è il fiume (il biondo Tevere che «s’è fatto moro», direbbe qualcuno) che la divide a metà, dove c’è la metro, anche, una metro che sembra un eterno romanzo incompiuto, che si ferma ogni volta che incontra la Storia, quella con la «S» maiuscola.
Poi c’è il piano terra, dove ci siamo noi, dove il silenzio, forse, non è mai esistito, dove c’è sempre traffico, su una strada che sembra fatta di cartone, mentre l’aria si riempie di insulti e di smog, di malumori, di fretta, di battute per sdrammatizzare, di appuntamenti mancati, di perenni ritardi. Per questo, alla fine, tutto si sistema guardando il piano di sopra, lì, dove ogni mattina ritorna il cielo, color viola, color albicocca, tutti i colori possibili, che a me sembra quasi di assistere all’aurora boreale, più li guardo e più mi accorgo che forse neanche sul sito di Pantone ce ne sono così tanti di colori.
Per me che scrivo, che a Roma ci sono nato, ecco, ambientare le storie qui è un po’ una condanna, un obbligo, quasi, sono troppo coinvolto, poco lucido, più provo a immaginare le mie storie fuori da questa città e più lei ritorna, come qualcuno che vuole farsi perdonare, come se lei volesse contagiarmi con la sua pigrizia, come se volesse rimanere per sempre al centro delle mie attenzioni. Ho sempre avuto l’impressione che Roma la raccontassero meglio i non romani, forse perché più liberi, più coraggiosi, meno contaminati. Pochi giorni fa ho letto per la prima volta Mozziconi di Luigi Malerba, ripubblicato da Quodlibet (pp. 120, 13 euro).
Malerba mi è sempre piaciuto molto come scrittore, per la sua semplicità, per la sua chiarezza, per i suoi pensieri sempre così puliti, così giusti, così vivi. La sua Roma io me la ricordo in un romanzo che si chiama Il serpente, che veniva descritta come in una lunga dichiarazione d’amore, in cui i due protagonisti ci camminavano sopra e si facevano guidare dalle forme della città, come quando si trovano in via Giulia, dove la strada pende verso il centro, dov’è impossibile non camminare vicini. Quella di Mozziconi, però, è tutta un’altra Roma, quella che si vede quando smettiamo di sognare e diventiamo realisti.
Mozziconi è un vagabondo, senza una casa, anzi, uno che un giorno ha deciso di buttare via la casa fuori dalla finestra. Cos’è che non ti piace di Roma?, gli chiedono. «Roma», risponde lui, «perché mi fa schifo». Mozziconi è cispadano, «cioè romagnolo o emiliano», come Malerba. È solo, e come tutte le persone sole ha molto tempo libero, per farsi delle domande strane, per «pensare le cose che gli uomini si dimenticano di pensare», tipo chi sarà mai che ha inventato i proverbi, cose così, o per fare il buffone e farsi prendere in giro da tutti quelli che incontra, per correggere dei quotidiani che la gente butta e che sono pieni di bugie, per scrivere dei messaggi al mondo per poi metterli nelle bottiglie di vetro vuote che trova per terra, che sembrano pronte per navigare sul Tevere come fossero piccole barche.
A Roma, in effetti, ogni tanto ci si sente così, la solitudine è piena di possibilità, è vero, è il luogo in cui tutto può succedere, ma è anche una preda facile del cinismo, dell’indifferenza, di una città che non finisce mai, come diceva Leopardi, che è sempre pronta ad accoglierti per poi voltarti le spalle. Come in quella scena de La grande bellezza in cui Verdone decide di andare via da Roma perché l’ha deluso, non ha saputo essere buona con lui. Mozziconi, la notte, conta le stelle, non riesce a dormire, crede che il sonno somigli tanto ai romani, visto che non è mai puntuale. Ma forse la colpa non è dei romani, a Roma ci sono troppe macchine, troppe strade, troppe buche, troppi lavori in corso, troppi incidenti, troppi posti di blocco, è una città in cui è impossibile prevedere un incontro e non dire almeno una volta al giorno «Scusa il ritardo, ma…».
La città dei paradossi, dell’immondizia a terra, dappertutto, che vedeva Mozziconi e che vediamo noi oggi, e delle domeniche ecologiche, in cui la gente rimane a casa a vedere le partite o se ne va fuori città. Non rimarrebbe che fare la rivoluzione, anche se forse mancano i soldi, il tempo, la voglia di farla davvero. E alla fine ci si guarda intorno, si rimane a bocca aperta, comunque, per le luci, i colori, per quel piano di sopra capace di illuminare sempre quello su cui camminiamo, in cui, come Mozziconi, pensiamo: «Questo è un posto bellissimo e io sono un uomo fortunato».