Recensioni / Aldo Masullo, L’Arcisenso. Dialettica della solitudine

Da sempre, una delle questioni cardine della filosofia è quella del “tempo”. Tematica questa che attraversa l’intero percorso speculativo del filosofo napoletano Aldo Masullo, e che trova forse la sua più emblematica e compiuta trattazione in un meraviglioso volume del 1995, Il tempo e la grazia (Donzelli). Da poco, Masullo ci ha regalato un altro preziosissimo, fondamentale tassello della sua incessante meditazione sul tempo, quasi fosse la Cosa del pensiero, il cruccio continuo di ogni singola esistenza. Il volume in questione, edito nel 2018 dalla casa editrice Quodlibet di Macerata, reca il titolo L’Arcisenso. Dialettica della solitudine. Esso è diviso in varie sezioni (Paticità, Dolore, Durata, Solitudine, Silenzio, Sapienza, Grazia e da un Appendice di carattere autobiografico) e presenta in maniera organica contributi apparsi in precedenza su varie riviste.
Il punto di partenza dell’analisi di Masullo è il fenomeno del “repentino”, la repentinità, il cambiamento improvviso che si manifesta nel suo aspetto negativo come “catastrofe”, nel suo aspetto positivo come “grazia”. L’esistenza quando si accorge di non essere più in accordo con il mondo si sente mancare il terreno sotto i piedi, non ha più basi solide, ma un debole fondamento. L’esistenza gettata nel mondo, si ritrova immersa nel flusso della vita, e in questo flusso si realizza, costantemente esposta all’imprevedibilità del divenire, alla drammaticità e alla furia devastante del tempo: «Al fondo di ogni vissuto sta una rottura. La vita è un incessante rompersi, anche se abitualmente inavvertito. Quando il rompersi è violento e inabituale, l’in-differenza dell’essere esplode nella differenza dell’e-sistere. È questo il “repentino”» (p. 14). E ancora: «L’irrompere del repentino è il non parabile colpo alla banalità dell’esistenza quotidiana, alla “superficialità” della sua comprensione. Nelle espressioni “colpiti da un fulmine” o “caduti dalle nuvole” oppure “innalzati al settimo cielo” noi comunichiamo in modo immaginoso un nostro vissuto straordinario» (p. 154).
Secondo Masullo, la vita dell’uomo non è una sequenza cronologica una sequenza di fotogrammi come in un film, non è cioè una sequenza di posizioni spaziali che si susseguono nel tempo (istanti ripetibili), ma è un continuum che presenta fratture, è vita vissuta, e in quanto tale è il tempo stesso. Il tempo siamo noi, noi siamo temporalità vivente! Nella nostra tradizione culturale si è affermata l’idea che il tempo sia causa di trasformazione, di generazione e corruzione di ogni fenomeno fisico (es: la rosa appassisce, il tempo è causa dell’appassire della rosa). Secondo questa visione il tempo possederebbe una capacità distruttiva. In realtà il tempo non è l’oggettività del cambiamento, ma è una funzione dell’anima, un atto della soggettività. Il tempo è destabilizzante non perché è causa del perire di ogni realtà fisica, ma perché destabilizza l’anima, si tratta cioè di una destabilizzazione del vissuto, di una paticità o affettività pura. Il tempo è la paticità pura.
«Cooriginario con l’esplosione fantastica dell’affettività, il tempo è prima di ogni giudizio, e quindi di ogni “esperienza”. Esso è l’avvertimento emozionale della destabilizzazione, la destabilizzazione sentita, il senso della destabilizzazione, il suo “vissuto” (il πάθος del divenire), la paticità pura. Si tratta – va ribadito – non del senso della destabilizzazione, quasi che questa fosse l’oggetto del senso. Il “vissuto”, il senso appunto, a differenza della “esperienza”, non ha oggetto, come del resto non hanno oggetto il piacere o il dolore. La destabilizzazione è il fenomeno affettivo, cui noi in fondo sempre alludiamo quando sia pure in modo oscuro ed equivoco nominiamo il “tempo”» (p. 57).
Il tempo allora è un’emozione, è il pathos assoluto, il trauma originario della soggettività. Quando parliamo del tempo come paticità pura ci riferiamo al vissuto, a ciò che propriamente siamo. Masullo non ritiene che il tempo possa essere oggettivato, insiste infatti sulla non cognitività e inoggettivabilità del tempo, ma può essere solo vissuto come senso, ossia Arcisenso. Il tempo che noi siamo (viviamo) è inesprimibile, è l’emozione unica ed irripetibile legata al vissuto che la vive. Il tempo patico è l’atto del viversi, l’assoluto della passione. Io sono ciò che vivo, e ciò che vivo è il tempo patico. Se vivo un’emozione, io sono quell’emozione, ma se non vivo più quell’emozione, io non sono più quell’io, ma un altro io, quell’io è morto. Il tempo è allora il senso vissuto del cambiamento, della destabilizzazione. Siamo noi che viviamo il cambiamento, quindi il fenomeno della repentinità non ha una valenza cognitiva o semantica, ma solo affettiva o patita.
«Il fenomeno, il vissuto, del “repentino”, mettendo innanzitutto fuori gioco il tempo lineare, l’ordinata successione di “prima e poi”, introduce d’impeto nella nostra vita la rottura della sua complessiva continuità. Con ciò va in frantumi l’ovvia connessione causale del vivere. Si può infatti pensare la semplice successione temporale, il “prima e poi”, senza alcun nesso causale, ma non si può pensare alcun rapporto di causa ed effetto senza il “prima” della causa e il “poi” dell’effetto. Proprio in quanto rottura della continuità della vita e dei suoi nessi ordinari, il repentino è inatteso, imprevisto e imprevedibile. Lo si vive, quando capita, senza che si sia avuta alcuna “ragione” per aspettarselo» (p. 153). Alla fine della sua analisi, Masullo propone come rimedio di fronte al terrore per l’imprevedibilità del divenire, all’effetto catastrofico del repentino, un’etica attiva della salvezza. Per etica attiva Masullo intende la vera dimora dell’uomo, cioè del nomade, che è poi il tempo come spazio da esplorare, come fonte di possibilità illimitate, infinite. Dimorare nel tempo significa esistere autenticamente, non temere di fronte al divenire o provare un senso di smarrimento di fronte al repentino, ma calarsi a fondo nel flusso della vita per viverla pienamente. Attraverso l’etica attiva della salvezza, l’uomo vive pienamente se stesso, il proprio tempo, attua se stesso nell’irripetibilità dell’istante. In questo modo il tempo non è più ciò che irrompe improvvisamente e ci stordisce, ciò che ci sradica dalle nostre certezze, il fiume impetuoso che spazza via ogni stabilità, ma è speranza, possibilità da vivere, apertura che al tempo stesso tiene conto della storicità, della memoria e quindi della responsabilità. Ecco allora il tempo inteso come “grazia”: «Il luogo della grazia non è pratico, cioè teologico, o giuridico, o politico, o etico, bensì puramente estetico. È la bellezza, proiezione oggettiva della poeticità» (p. 158).