Henri Michaux "Ecuador"
Trad. Guido Neri pp. 151, euro 14, Quodlibet, 2005
1927, un gelido mercoledì di dicembre. Henri Michaux, già sorpreso alla dogana con addosso 1'«aria di un giocatore sfortunato» (fatto che di certo ha determinato il controllo delle sue valige), si trova ad Amsterdam; ha ventinove anni ed è annichilito dal freddo: «Per resistergli bisogna avvilupparsi in se stessi, o piuttosto livellarsi». Aspetta l'imbarco sul Boskoop, la nave che lo condurrà a Quito in compagnia del poeta e «amico» Alfredo Gangotena, del futuro «compagno di piroga» André de Molezun e di altri due insoliti personaggi: un mercante d'arte e un pittore. Si tratta di un'avventura a largo rimandata e desiderata, che varrà, nel 1929, la pubblicazione di Ecuador. Un journal de voyage - secondo quanto si legge nel sottotitolo originale - esplicito fin dalla Prefazione, dove l'autore lo dice frutto dei vagheggiamenti di «un uomo che non sa viaggiare né tenere un diario» e che pure in questi fogli trovò, consumò, perdette e riconobbe (per la prima volta veramente, dopo il più compresso "Qui je fus") se stesso e l'ispirazione fondamentale della sua opera: «Comincio a sapere, grazie a questo diario, che cosa c'è in una giornata, in una settimana, in alcuni mesi. E’ orribile, del resto, come non ci sia nulla. E non conta saperlo. A vederlo sulla carta, è come un verdetto». Viaggio che si fa iniziazione al vuoto - questo il parere di molti sui pellegrinaggi mentali e fisici di Michaux - ma soprattutto inizio del gioco della scrittura dentro l'esilarante perdita d'ogni orizzonte certo: fra i pensieri di Ecuador si fanno eco il disprezzo nei confronti delle bellezze paesaggistiche e l'attenzione certosina posta su una zanzara invisibile; gli agguati tesi alla leggibilità quanto all'illeggibilità della pagina e insieme il furioso, irritante, deliziosamente fraudolento appello al lettore: «Non mi date per morto, solo perché i giornali avranno annunciato che io non ci sono più. Mi faro più umile di quanto non sia ora. Non potrei farne a meno. Conto su di te, lettore, su di te che mi leggerai, un giorno o l'altro, su di te lettrice. Non lasciarmi solo con i morti come un soldato al fronte che non riceve lettere. Sceglimi tra loro, per la mia grande ansietà e il mio desiderio».
In Ecuador - recentemente tradotto per la prima volta in italiano dalla bella, nonché esperta penna di Guido Neri per la collana "In ottavo" di Quodlibet - c'è davvero tutto Michaux, non solo quello giovanile. Ci sono in genere le trasfigurazioni oniriche che informeranno le fantasmatiche geografie di Altrove (1948) e i più vicini incantamenti di Un barbare en Asie (1938); si consumano le droghe amate e quelle considerate avvilenti (l'oppio, che ottunde i «nervi» necessari all'autore per continuare a «rimanere» qualcosa); si profilano gli stranianti affetti (in bilico tra compassione e desiderio carnale) per gli animali; c'e il cuore malato dalla nascita che affanna gli spostamenti e li decide; si esercita l'ironia spinosa, affaticata e allegramente irriverente di chi, arrivato a Suña, guarda «una donna, appoggiata sui gomiti, che sospira»". E aggiunge: Immagine suggestiva, non lo nego; ma un uomo stremato, un uomo che non vede l’ora di andarsene a dormire, io non sono che questo. Impossibile, ora: amor proprio». Ma c'è anche di più: in Ecuador s' incontra un Michaux già sorprendentemente maturo, fluentemente scisso, inarrestabile nel costruire frammenti e sfidare i confini di genere. Prosa e poesia s'intrecciano e ricompongono, sospinte tra microracconti e poemi, riflessioni dal sapore filosofico e illuminazioni o divertissements in versi dedicati agli amici. Fra appunti di poetica che non temono le rughe del parlato e folgorazioni quasi bambinesche, commoventi come Morte di un uccello, dove il variopinto carpintero subisce il colpo inflitto dall'uomo, sembra esitare, cade a terra, per nulla sfigurato. Di certo, conclude Michaux, «deve essere morto di stupore».
Dice il risguardo di copertina: la lettura di questo libro è «una navigazione senza strumenti», né al suo fondo troveremo una mappa antropologica o peggio una qualche salvezza, un sapere o un'innocenza riparatori. Più d'ogni altra cosa, riconosceremo il volto di «un ilare maestro zen», imprevedibilmente reso saggio e senza scuola dal suo veleno. Uno scrittore che ha saputo ritrarsi nella giustamente celeberrima Sono nato forato - «Ho sette o otto sensi. Uno fra essi: il senso della mancanza. Lo tocco e lo palpo come si palpa il legno [. . .]. Io mi sono costruito su una colonna assente» -, che s'interroga sul farsi dell'uomo spettacolo e fabbrica di felicità e che, enunciando un principio che sarà poi alla base dei suoi libri e, beffardamente, della sua vita, riesce a far suonare inedita e sorprendente l’amara ed eterna filastrocca d'ogni sconfitto viaggiatore contro la commutatio loci: «Si può trovare la propria verità anche guardando per quarantotto ore una carta da parati».