Recensioni / «Scrivere assolutamente nulla, indicare la distanza». Appunti su Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel

In un’installazione artistica, Before you judge me, walk a mile in my shoes, Bedwyr Williams sfida chi guarda a tirar fuori dallo scaffale un paio tra le scarpe – circa una trentina – esposte con relativa targhetta, infilarsele, camminare. Nessuno nel museo camminava con le sue scarpe. Non l’ho fatto nemmeno io, ma le ho guardate, e ne ho letto le targhette: su ognuna, c’era qualche dato, un frammento di vita – queste le ho portate al funerale di mio padre, queste erano le mie preferite quando avevo 16 anni, e via dicendo: un lacerto oggettivo che si fa portatore di un altro senso, tutto privato.
Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Quodlibet – Humboldt, 2016) segue un procedimento simile. Come per gli altri titoli della collana, si dovrebbe trattare di un reportage narrativo: ma c’è di mezzo Giorgio Vasta, e allora tutto si fa caleidoscopico. Il viaggio a tre (Vasta, l’editrice Giovanna Silva, il fotografo Ramak Fazel) diventa una matrioska di altri viaggi. Vasta – che mai o quasi mai si fa nominare nel libro – racconta storie, dettagli tragitti e traiettorie con una precisione destabilizzante: solo dopo aver letto già diversi capitoli mi sono resa conto che l’andamento della storia non era cronologico. Sfogliavo le pagine indietro per tentare di ricostruire qualcosa che si era ormai già frammentato in sensazioni pulviscolari, ma ho rinunciato, decidendo di lasciarmi guidare dalle scarpe di G.V., dalle targhette che a ciascun luogo apponeva.

Il libro è pieno di citazioni: film, libri, gli stessi luoghi che si intersecano alla finzione, alcuni li nomina G.V., ad altri pensa chi legge, a seconda di ciò che ha visto o letto in quel periodo. Leitmotiv del viaggio, la famiglia antropofaga, la famiglia di reduci che per sopravvivere nel deserto hanno mangiato i propri cari. Mangiare l’altro, mangiarne l’esperienza, assimilarla, vivere di esperienze altrui per non sentire la mancanza.

Lucia è un nome che compare solo alla fine del viaggio, che è stato riportato per iscritto molto dopo il rientro in Italia, ed è anch’esso un ricordo: l’ultima parte del libro è l’ennesima scatola cinese di ricordi, di luoghi abbandonati. I luoghi di G.V., di una casa a Palermo da riabitare, di una casa a Torino da abbandonare, di una casa a Roma appena lasciata e di un numero impossibile di pacchi depositati a Zagarolo, come un fantasma hanno infestato la stesura del libro, circonfuso – solo a fine lo sappiamo – di un triplice alone di mancanza: al nulla progressivo del deserto si aggiunge il nulla del viaggio finito e prolungato, esteso il più possibile (la stessa struttura scomposta, sfilacciata, lo rende più lungo e intenso) con la scrittura, cui si aggiunge il peso dell’assenza di una persona, di un nome, esattamente di quarantadue chili. Da absolutely nothing ad absolutely nobody: il gioco della finzione, la grande finzione americana che tutti rende mitici e deteriorabili.

Vorrei anch’io chiamare a casa per farmi dire dove sono, in che pezzo di deserto mi trovo, ma, mi chiedo, a questo punto del racconto, dopo queste ventidue miglia nell’absolutely nothing, quando tutto sta per finire, cosa ci sarebbe di buono nello scoprire il nome del corpuscolo di spazio su cui poggio i piedi, e a cosa mi servirebbe individuare il corridoio che conduce fuori da uno stallo che tutto è tranne che effimero? Eppure, mettendomi anch’io a marciare in cerchio solidale con i miei compagni, estraggo il cellulare dalla tasca, vado sulle chiamate recenti, tocco il nome, porto il telefono all’orecchio, aspetto, non succede niente, continuo ad aspettare preso come gli altri nella mia spirale, coerente con il nostro destino di giricall e a un tratto sento il suono della chiamata allungarsi da questo punto sconosciuto del deserto del Mojave fino a Roma, a via Sforza, al telefono di Lucia, uno squillo, un altro, un altro ancora, poi al linea cade, faccio partire di nuovo la chiamata e mentre adesso nell’orecchio non si forma nessun suono osservo i turbini materializzarsi e sparire all’orizzonte e in questo momento il viaggio si dilegua e so di essere arrivato dove il tempo si coagula in un unico punto da cui lo sguardo è illimitato ed è illimitato il linguaggio, il pensiero si annebbia, la memoria svanisce, esordisce il miraggio.

Una volta ho usato una rolleiflex. Guardare nel pozzetto, intuire lo spazio dell'inquadratura, inquadrare il riflesso, perché quello che si vede nella rolleiflex è l’immagine al contrario, non c’è il meccanismo che raddrizza l’immagine e la allinea all’occhio, è una vertigine. In piedi, dritta, il mento verso il collo, c’è una foto altrui che mi ritrae intenta a fissare in quella microscopica wunderkammer. Ramak Fazel è ritratto (da Silva: lei ha la voce, in bianco e nero, delle foto inserite tra testo e testo) in modo simile: chino, un po’ molleggiato, un braccio alzato a reggere l’asta del flash manuale. Torna in mente l’alfamuto de Il tempo materiale. Ogni corpo d’altra parte è una posa, e ogni posa è un segnale. Le foto di Fazel sono in fondo al libro, disposte in un medesimo caos di coerenze, diverso – ovviamente – da quello del narratore, perché scrittura e fotografia si avvicinano ma non sono la stessa cosa.

Ogni tanto tra un capitolo e un altro compare una vignetta di Spike, «figura poverina», il fratello di Snoopy che vive nel deserto: solitario e malinconico, ma incapace di fare a meno del deserto. Se inizialmente si può pensare a una specie di spalla comica, a un controcanto alla serietà del testo, poco ci vuole per rendersi conto che così non è, e che al contrario è Spike quello serio, quello che davvero nel deserto ci vive e che il deserto ama. Spike conosce il deserto, G.V., immaginifico ma distante, cerca continuamente di porre tra sé e il racconto del viaggio un velo sottile e talvolta caustico di ironia, di autoironia. La famiglia antropofaga non può averla vinta, l’esperienza deve rimanere distante: ed è in un momento di silenzio, nell’ennesimo deserto, che Spike si manifesta da un cespuglio e un sacchetto di plastica, per dare vita alla più lunga, paradossale, bella conversazione del libro.

Qualche giorno fa ho visto la foto di un cartello, dico a un tratto. C’era scritto soltanto absolutely nothing, e poi next 22 miles.
Mi guarda, attende.
Mi ha colpito, dico.
Perché?
Perché eravamo nel deserto e non c’era niente di niente, quindi precisarlo, scrivere assolutamente nulla, e indicare la distanza, mi è sembrato paradossale.
No, dice lui, è giusto.
Ma non è vero, dico. In quelle ventidue miglia lo spazio continua a esserci.
Lo spazio sì, dice lui, ma la lingua no.
Che cosa vuoi dire?
Che la lingua a volte tace. Ammutolisce è più esatto. La lingua, riprende dopo avere messo a fuoco il suo ragionamento, resta senza parole.
[…]
Quel cartello è come una bandiera bianca, dico.
Non come, fa lui. È una bandiera bianca. Sventolata dalle parole.
Ed è anche, penso, la didascalia di questo viaggio: andare a vedere cosa succede negli spazi da cui le parole sono andate via.

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