Un universo fitto di tracce e segni
Dipingere paesaggi per circa cinquant’anni - pressoché sempre gli stessi, immaginati o osservati dal vero, immobili o nel loro continuo mutare di segni - è un po’ come imporsi di tenere un diario in cui, giorno dopo giorno, si annotano accadimenti e pensieri,
variazioni di umori e improvvisi malumori.
Da questo punto di vista, la pittura di paesaggio di Tullio Pericoli ha molto a che fare con la scrittura autobiografica: sia l’una che l’altra, parafrasando un pensiero di Giorgio Manganelli, danno forma a un universo segreto e misterioso «fitto di segni, di tracce, di appunti, di immagini che parlano, raccontano, organizzano e interpretano. Un linguaggio arbitrario e necessario». Le forme del paesaggio che Pericoli ha annotato, classificato e immaginato dal 1970 al 2018 – quasi cinquant’anni, appunto – sono le pagine più intense della sua biografia di pittore, ora sistematizzate in un corpus di 165 opere in rassegna nel trecentesco Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno: «Un percorso a ritroso», scrive in catalogo Gaudio Cerritelli, curatore della mostra, «un racconto che dal presente risale verso le radici del vissuto, dalle attuali frammentazioni visionarie alle originarie sperimentazioni geologiche». Un viaggio a tappe nelle ragioni della sua pittura e in quelle
del sentimento, dal momento che si tratta anche di una sorta di ritorno dopo un lungo peregrinare nella terra madre, da cui giovane si è allontanato. Mai dimenticata e per lui
sempre accogliente.
LA PARTENZA. Nato nel 1936 a Colli del Tronto, piccolo borgo dell’entroterra piceno, Pericoli arriva a Milano ne11961 e dalla città lombarda non si è più mosso. Prestissimo
comincia la sua carriera di disegnatore, che in breve tempo lo porta a essere apprezzato e utilizzato dalle più importanti testate giornalistiche nazionali e internazionali («Il Giorno», «L’Espresso», «la Repubblica», «The New Yorker», «Frankfurter Allgemeine», «New York Review of Books», «The Guardian, «El País»). Con la serie delle Geologie (1970-1973) dà poi avvio alla sperimentazione più propriamente pittorica, che di volta in volta trova accoglienza e riconoscimento in importanti gallerie private (Gian Ferrari, Solferino, Il Milione, Lorenzelli e Marconi a Milano, la galleria dello Scudo a Verona, Michaud a Firenze, Rondanini e II Segno a Roma, per citarne solo alcune) e in prestigiosi spazi espositivi pubblici (Palazzo Reale e il Pac a Milano, Palazzo Lanfranchi a Pisa, Palazzo Ducale a Urbino, Palazzo Fava a Bologna, l’Ara Pacis a Roma).
A TUTTO CAMPO. Proteiforme nei suoi interessi e da subito entrato a far parte del milieu artistico e culturale italiano, disegna scene e costumi per l’Opernhaus di Zurigo e per il Teatro alla Scala di Milano; pubblica con alcune delle più importanti case editrici una serie cospicua di libri di riflessioni teorico-letterarie e soprattutto di disegn (per i tipi di Adelphi pubblica, tra gli altri, I ritratti, I Paesaggi, Pensieri della mano, Piccolo teatro e La casa ideale di Robert Louis Stevenson; per Rizzoli International, Dreamscapes<(i>; per Bompiani, L’anima del volto; per Mondadori, 80 ritratti per 10 scrittori; per Skira, Scritture e figure; per Henry Beyle, Storie della mia matita).
Il suo è un lavoro a tutto campo e senza posa, ma sempre nel segno di un assoluto rigore, guidato da «una mano che pensa» e di cui è ben riconoscente: «La mano è ricca di
crediti nei confronti del disegno e della pittura: ogni artista deve moltissimo alla sua mano».
Punti di vista alti, bassi e obliqui
AMATI MAESTRI. Fatta eccezione per una serie di ritratti a olio – come quelli dedicati a Samuel Beckett, che saranno prossimamente protagonisti di una mostra a Parigi nella
Galerie Gallimard al 30 di rue de l’Université – è la pittura di paesaggio, praticata con concentrazione e andamento quasi zen, il cuore della sua ricerca: un’autobiografia mai
interrotta in cui la sua silenziosa disciplina raccoglie l’eco di maestri amati e dichiarati (Klee e Feininger, Steinberg e Hokusa i, Hockney e Van Gogh, Picasso e Morandi, Licini
e Giacomelli - i due, grandi marchigiani come lui): «Non si tratta di riferimenti linguistici», puntualizza Cerritelli, «ma di una vicinanza al loro modo di dar forma all’ansia di
superare se stessi». Attraverso una pittura che si è fatta scrittura e viceversa, Pericoli compone e scompone le forme del paesaggio della sua terra, trasformandola in un luogo universale in cui è piacevole vagare (e divagare) fino a perdersi (ovviamente, è Leopardi al centro del suo larario domestico).
IL RITORNO. Ecco, dunque, il ritorno sentimentale ad Ascoli Piceno («Il punto è: esiste Ascoli Piceno?». si chiedeva sornione e diffidente Giorgio Manganelli in un funambolico e improbabile reportage sulla città, riproposto da Adelphi in una preziosa plaquette in occasione della mostra). Ecco il ritorno di Pericoli agli asimmetrici e frammentati
paesaggi marchigiani; quelli sempre presenti negli occhi visionari di Osvaldo Licini e nei sublimi scenari rinascimentali e già romantici di Lorenzo Lotto; quelli che, come lo
stesso Pericoli annota, «ho potuto guardarmeli e fissarmeli nella memoria da tanti punti di vista, alti, bassi e obliqui, sognarli, pensarli e tradurli nella lingua che so parlare
meglio»: la lingua della pittura.
IL DIALOGO. Si diceva del percorso a ritroso affrontato dalla mostra ascolana, che partendo dai lavori dell’ultimo decennio, ricchi di una materia pittorica che in qualche
modo ha preso il sopravvento sul segno-scrittura, si addentra e rivela la tensione formale che sin dagli inizi ha caratterizzato la ricerca di Pericoli. Ovvero, quel suo dialogare
con una pittura che interroga se stessa attraverso il modello che meglio la rappresenta: il paesaggio con le sue forme inesauribili e mai riconducibili a un solo canone di rappresentazione. E così, all’interno del dispositivo narrante della mostra, compaiono i lavori degli anni tra il 1976 e il 1983: acquerelli, chine e matite su carta di spazi dilatati e appena definiti da orizzonti onirici, in cui si materializzano da chissà dove riflessi di alfabeti e scritture misteriosi. Appaiono «nuove morfologie paesaggistiche» (1998-2009) ricavate da dettagli all’apparenza astratti e informali, e le mappe frammentate («parti senza tutto») segnate da una materia resa sempre più densa e corposa generata dall’utilizzo della pittura a olio. In cinquant’anni di paesaggi autobiografici, la natura e la pittura si osservano e si indagano vicendevolmente. La pittura di Pericoli ha messo in posa la natura.
Quest’ultima scruta l’artista e la sua pittura. «Pericoli», conclude Claudio Cerritelli, «ha immaginato un flusso di forme che avvolge il visitatore, ponendolo al centro di una
visione totale dove la pittura interroga se stessa, incontra emozioni inattese, sensazioni sconosciute, sconfinamenti mai visti».