Recensioni / Racconti sismografici dalla voce di Michaux

La riproposta delle opere dello scrittore francese nel catalogo di Quodlibet passa, ora, per Ecuador dove sezioni poetiche si alternano alla prosa del diario. Quel che interessa al sovversivo Michaux non è riversare sulla pagina i fantasmi verbali del luogo, bensì raccontarci una storia radicata in quella macchina imperfetta che è il corpo del viaggiatore

Tra le recenti iniziative di “modernariato” editoriale, la più significativa e a suo modo necessaria mi sembra la riproposta delle opere di Henri Michaux, da quest’ anno nel catalogo di Quodlibet. Forse non è stata felice l'idea di iniziare l'impresa con Altrove, l'opera più “di testa” e in definitiva noiosa di questo grande quanto inclassificabile scrittore, ma il volume è arricchito da un bel saggio, illustrato da un rarissimo ritratto in bianco e nero di Michaux (che odiava farsi fotografare), firmato da Gianni Celati e Jean Talon, che vale un po' per tutta l'opera e il senso della sua attuale riscoperta. In Francia, la consacrazione è avvenuta alla fine degli anni `90, con i due monumentali volumi delle Oeuvres complètes, curati da Raymond Bellour e Ysé Tran per la Pléiade. Un atto dovuto per questo artista dell'azzardo ed esploratore di universi fisici e mentali ambigui e sconosciuti, se il concetto di “classico” conserva ancora un minimo di significato reale. Eppure Michaux, morto ottantacinquenne a Parigi nel 1984, difficilmente avrebbe amato una soluzione editoriale così monolitica e poderosa - e non solo a causa della sua naturale modestia e ritrosìa. Il fatto è che la nozione di “testo”, anzi più precisamente di “libro”, è al centro della sua poetica non meno della singola pagina, della singola illuminazione. Ma, appunto, che cos'è poi veramente un libro? E come è possibile sollecitare esteticamente la sua natura discontinua rispetto all'esperienza che lo presuppone, lo determina in profondo pur facendosene inevitabilmente tradire, ad ogni svolta della costruzione formale? E soprattutto, quale sarà mai il ruolo dello scrittore, questo eterno Arlecchino al servizio di due padroni (l'esperienza, il testo...), di fronte alla vertigine di quella discontinuità costitutiva?

Ecuador, che adesso appare nell'ottima traduzione di Guido Neri (pp. 155, euro 14,00) è una splendida, seppur parziale, risposta a queste domande. Gallimard lo pubblicò nel 1929, a ridosso del lungo viaggio in America Latina dello scrittore, che proprio quell'anno aveva girato la boa dei trent'anni. Formalmente, Ecuador è ciò che nei vecchi manuali di stilistica si sarebbe definito un prosimetro. La prosa di un diario si alterna infatti liberamente a sezioni poetiche. Ma non è detto che queste ultime siano il luogo di una particolare “veggenza”, e che alla prosa spetti il compito più ancillare di proseguire la narrazione. Tutto al contrario: perché ai versi può capitare di render conto di snodi fondamentali dell'avventura, mentre la prosa, lavoratissima, può diventare il veicolo ideale dell'illuminazione, dell'aforisma fulminante, della confessione irreparabile.

Se la condizione di ogni esperienza realmente autentica è che nulla sia deciso in anticipo, ciò vale doppiamente - suggerisce il giovane Michaux - per la scrittura e le sue forme, prive di prerogative specifiche. Questo coerente principio di indeterminazione formale è anche un criterio prezioso della rappresentazione di sé e del mondo circostante. “Ma insomma”, si chiede Michaux ancora sul transatlantico che lo porta da Amsterdam all'Ecuador, “dove è questo viaggio?”. Già, perché i luoghi toccati da un viaggio potranno anche essere nel mondo, ma il luogo del viaggio non coincide mai col mondo: tanto è vero che il mondo, al nostro viaggiare, è totalmente indifferente, non se ne lascia né segnare né modificare. Allora, si potrà dire che il viaggio avviene dentro di noi. A patto, però, che questo spazio interiore non sia semplicemente identificabile con una “mente”, con una specie di res cogitans munita di biglietti e passaporto, come purtroppo accade nella stragrande maggioranza dei libri di viaggio. Al sovversivo Michaux interessa tutta un'altra storia, una storia radicata nel corpo del viaggiatore, macchina imperfetta e meravigliosa al tempo stesso. Fatalmente inadeguata all'asperità del mondo, da un lato; però capace di trasformare proprio questo scacco in una prospettiva, e dunque in una conoscenza.

Per quel giovane debole di cuore, le altitudini dei paesi andini non erano certo il soggiorno ideale. Fin dall'arrivo a Quito, la capitale dell'Ecuador, la sfida di Michaux non consiste nel riversare sulla pagina un equivalente, un fantasma verbale del luogo, ma nel comunicarci il senso di una traumatica rarefazione dell'ossigeno, assieme alle sue conseguenze di ordine cognitivo. “Qui fumiamo tutti l'oppio delle grandi altitudini”, si legge in una delle più belle poesie del libro, L'arrivo a Quito, “voce sommessa, brevi passi, breve respiro”. Chi conosce il Michaux esploratore delle sostanze psicotrope e dei loro universi paralleli, sa bene che l'oppio e gli oppiacei non sono mai stati al centro dei suoi interessi. Ma la metafora nulla perde della sua esattezza gnoseologica. Le “grandi altitudini” andine sono un “oppio”, in effetti: qualcosa che ottunde i sensi, ne limita la normale funzionalità, ma proprio in questa limitazione si sprigiona un supplemento percettivo, una promessa di illuminazione. Da questo punto di vista, viaggiare e drogarsi sono due articolazioni molto affini dell'esperienza, non solo per il semplice fatto che (come in tanta letteratura on the road successiva) i luoghi esotici permettono incontri frequenti con droghe potenti e sconosciute. C'è di più: viaggi e droghe appartengono entrambi al dominio dell'intossicazione, perché spingono più velocemente il corpo sulla china della sua mortalità. E questa particolare forma di angoscia produce una conoscenza diversa da ogni altra, che per il giovane Michaux si configura nei termini di una perdita di verginità.

“A volte”, annota durante un'escursione al vulcano Tunguragua, “leggo con attenzione qualcuno dei grandi scrittori classici. C'è una sorta di verginità in loro”. Quanto a lui, pur ammirando quella condizione intende dislocarsi altrove. E che cosa c'è oltre i confini della verginità dei classici, se non la volontà di mettersi in gioco, in una specie di scommessa pascaliana che ha come posta la durata del proprio corpo? “Per quanto tempo ce la farà a resistere, questa mia carcassa di pollo?” - esplicita e spudorata fino al limite dell'ingenuità, la domanda, per niente retorica, afferra l'essenziale di questo viaggio, la sua particolare dismisura: una “carcassa di pollo” che si espone all'incommensurabile potenza e forza distruttiva del mondo. E mai e poi mai una mente che osserva dei paesaggi protetta dal suo guscio organico. Tanto più che, a Michaux, non c'è quasi paesaggio che piaccia davvero (“Non c'è paese che mi piaccia: ecco che tipo di viaggiatore sono io”). O almeno, l'accertamento tautologico della bellezza di un luogo non fa parte della sua idea di letteratura. Semmai, a stimolare questa scrittura sismografica è proprio ciò che è informe - gli immani cumuli di terra nuda dei rilievi andini, o gli infiniti intrichi vegetali della foresta amazzonica - ciò che non solo non ha bellezza, ma sfugge ad ogni altro possibile attributo, non essendo che se stesso, pura e disumana monotonia delle cose così come sono. E se il mondo ha ancora qualcosa da rivelarci, ci rendiamo conto leggendo Ecuador, ciò sarà vero solo per chi avrà il coraggio, la disperazione e l'allegria necessari ad abbandonare la sua “carcassa di pollo” alla sua maestosa indifferenza, alla sua ruvidità, alla sua inebriante e soffocante altitudine.