Recensioni / Henri Michaux nel vortice della dissoluzione

In «Conoscenza degli abissi», riproposto di recente da Quodlibet, lo scrittore francese sonda gli effetti della mescalina in una seconda nascita capace di spodestare la tirannia dell'ego

«Quando mi proposero di realizzare un film sulle visioni procurate dalla mescalina, dichiarai, ribadii e ancora adesso lo ripeto che significava avventurarsi in un'intrapresa impossibile». Nonostante i suoi forti dubbi, espressi a chiare lettere, nel 1962 Henri Michaux decise di accogliere l'insistente richiesta a più riprese avanzatagli da un documentarista che lavorava per i laboratori cinematografici dell'industria farmaceutica Sandoz. Il documentarista rispondeva al nome di Éric Duvivier e, oltre a essere nipote del ben più celebre Julien - autore dell'Anna Karenina con Vivien Leigh, di una serie imprecisata di gialli con Delon, oltre che della popolarissima saga di Peppone e Don Camillo - era riuscito a ritagliarsi un ruolo di nicchia, quasi da pioniere nell'ambito del «docu-film» francese, specializzandosi in cortometraggi scientifici con particolare riguardo al campo della psichiatria e della neurologia, tanto che fra le sue realizzazioni figurano titoli non proprio divulgativi quali Phobie d'impulsion, Angoisse psychotique, Névroses post-traumatiques. In questa veste, aiutato forse anche dai buoni rapporti che intratteneva con l'ambiente affine a quello dei ricercatori (Roger Heim su tutti) che Michaux frequentava affinché monitorassero o lo aiutassero nelle sue «discese» nel regno delle sostante allucinogene, Duvivier era riuscito a trascinare lo scrittore in quella che, al di là di ogni aspettativa, ai suoi occhi si prefigurava, o forse doveva prefigurarsi, come una «intrapresa impossibile». Ma sarà proprio sulle conseguenze e sul significato da attribuire a questa «impossibilità» che si consumerà la rottura, a film ultimato, fra scrittore e regista. Deluso, il primo, da troppa «rigidità» nelle immagini, probabilmente appagato, il secondo, dalla compiutezza formale dei trentaquattro minuti di sequenze di cui consta il lavoro e dal fatto che, a ben guardare, non si trattava d'altro che di un film d'aggiornamento per tecnici del settore. Perché, allora, scomodare Michaux, riducendolo quasi al ruolo di cavia?
Dentro una danza infinitesimale
Viaggiatore solitario, appartato in stanze d'albergo che voleva sempre disadorne e buie, Michaux era interessato più alla comprensione diretta del mondo, che alla sua rappresentazione, mondana o scientifica che fosse. Anche per questa ragione, non concedeva spesso interviste, non si lasciava fotografare e non guardava di buon grado le registrazioni per La Voix des poètes, il programma culturale della radio francese a cui suoi colleghi ed amici si sottoponevano apparentemente senza sforzo. Al contrario, Michaux si era sempre rivelato tanto restio a concedersi all'obiettivo di un fotografo o a far registrare la propria voce su nastro, quanto perennemente pronto a confrontarsi con «quella specie di danza infinitesimale» messa in moto da esperienze (crisi, trance, stati alterati di coscienza) capaci di sconfinare dal campo strettamente neuro fisiologico in quello non meno critico di un'arte pronta a nutrirsi di ogni traccia di discontinuità e di non-finito. L'impossibilità, se c'era, non poteva che essere radicale, generata da una molteplicità di centri di forza in continuo antagonismo fra loro, non in un apparente richiamo all'ordine. Soltanto forzando oltre il limite consentito, in quell'abisso che dava il titolo a La connaissance par les gouffres (consegnato alle stampe pochi mesi prima dell'incontro con Duvivier), le conseguenze di questa impossibilità sarebbe stato possibile raggiungere il suo contrario, ovvero quell'«estremo che fuoriesce da sé» e dal soggetto.
«Non c'è un io. Non ci sono dieci io. Io non è che una posizione di equilibrio, una tra le tante». Così scriveva in conclusione di Plume, un libro «firmato a nome di una moltitudine». Quella moltitudine che la mescalina, ora, contribuisce a riattivare, dissolvendo una soggettività logora, aprendola a «un'altra nascita», accogliendo in sé una dimensione assente.
Che cosa intendesse Michaux con queste parole, lo si può ben capire sfogliando proprio La connaissance par les gouffres, uno dei suoi libri più intensi ora riproposto, a cura di Jean Tallon, con una splendida premessa di Emanuele Trevi, per Quodlibet (Conoscenza dagli abissi, traduzione di Mario Diacono, pagine 260, euro 16). «Chi è stato aggredito dalla mescalina», scrive fra le pagine di questo libro al tempo stesso delicato e terribile, «chi ha conosciuto dall'interno, allo stato nascente e quasi meteoricamente, l'alienazione mentale. Chi, divenuto improvvisamente impotente, in mille cose, ha assistito a tali colpi di scena della mente dopo i quali tutto in lui è cambiato, chi, in maniera privilegiata, s'è trovato presente al proprio sbandamento e al proprio sconnettersi e alla propria dissoluzione, ora sa che è come se fosse nato una seconda volta».
Un incontro tardivo
È proprio la possibilità di mostrare il vortice di questa rinascita che gli viene preclusa dal - forse troppo tardivo - incontro col cinema di Duvivier. Nonostante tutto, pur non nutrendo ambizioni di sorta, pur non concentrandosi in alcun tentativo fuori misura, mantenendo la calma quando il presentimento diventava certezza che, alla fine, qualcosa sarebbe andato storto, Henri Michaux si era dedicato con grande intensità alla collaborazione con il giovane documentarista. Acconsentì, fatto unico, a prestare la propria voce per il prologo, offrì alla telecamera i propri disegni mescalinici, mostrò anche entusiasmo per la musica che Gilbert Amy compose per la prima parte del film (la seconda, quella dedicata all'hascisch, era accompagnata da rumori e musica concreta). Ultimato nel 1963 dopo due anni di lavoro e di riprese, il film venne titolato Immagini del mondo visionario. Pur essendo rivolto a un pubblico di specialisti nel campo medico, la stampa cercò di enfatizzare l'«entrata di Henri Michaux» nel mondo del cinema, e gli organismi della censura di Stato, da parte loro, decisero di apporre il proprio divieto «vista la tematica, fortemente ambigua e pericolosa» rappresentata, a loro dire, dall'universo delle droghe in genere. A poco valsero le parole di Jean Delay che, in un esergo che apriva il film, lo presentava in una chiave tutt'altro che ambigua o pericolosa: «l'analogia o l'identità di questi stati sperimentali, che possono essere prodotti nel giro di alcune ore, con certi stati di alienazione mentale, è all'origine della attuali ricerche sulla patogenia biochimica delle psicosi». Se, come recitava Michaux nel prologo a queste Immagini del mondo visionario, la mescalina è una droga, essa ha la particolarità di essere «sempre al di là». Meglio l'abisso, di un qualsiasi paradiso: «Le droghe ci annoiano col loro paradiso. Ci diamo, piuttosto, un po' di conoscenza. Non siamo un secolo da paradisi».
Il suo disappunto, comunicato all'etnobotanico Heim (che lo riforniva di mescalina, funghi e cercò di attirare la sua attenzione sulle ricerche micologiche di Wasson e su quelle chimiche di Hoffmann) fu probabilmente quello di non essere, in questa circostanza, riuscito a spingersi oltre, nella ricognizione di quella seconda nascita capace di spodestare «il tiranno, l'ego» gettandolo in un abisso, grazie alla forza centrifuga di pittogrammi o disegni, frammenti di memoria o annotazioni, ed essere, in fin dei conti, caduto preda della rappresentazione di un «paradiso» tutto sommato modesto, adatto forse per un pubblico di modesti psichiatri, ma non certo per lui. La mescalina ha bisogno di «velocità», e questo genere di cinema non sapeva renderla appieno, poiché proprio il cinema, che, davanti alle sequenze rapidissime delle scene mescaliniche si rivela «impotente».
Forse solo la scrittura rivela la capacità di «danzare attorno agli abissi». Il suo «scopo», allora, dovrebbe essere quella di «srealizzare», di coadiuvare - come una droga all'ennesima potenza - nella ricerca di un «immaginario reale» o di un'«immaginazione derealizzante». Qualcosa che scavi, senza bisogno di riedificare alcunché sulle macerie del proprio io devastato e, ormai, «impossibile». Non essersi spinti nel cuore stesso di questa «impossibilità» costitutiva della scrittura, della ricerca e, probabilmente, anche del fare cinema, fu il principale rammarico di Henri Michaux.