Varebbe la
pena - scriveva Benjamin
nel
celebre
saggio del
1921 Per la
critica della
violenza - di indagare il dogma
della sacertà della vita». Bisognava attendere la metà degli
anni novanta, perché questo
suggerimento fosse finalmente raccolto. Giorgio Agamben
si accingeva allora a scrivere Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, uno dei libri più letti e
importanti della filosofia contemporanea, quindi a intraprendere un'avventura intellettuale di cui vedeva allora vagamente i confini, e che sarebbe durata fino al 2015, impegnandolo nella redazione di altri otto libri, accomunati dalla
stessa insegna benché pubblicati in Italia da diversi editori.
Quodlibet li ha adesso riuniti
nella veste pregiata dell'edizione integrale Homo sacer.
1995-2015, unico volume (pp.
1367, euro 70,00) arricchito di
una bibliografia completa rivista da Diego Ianiro, e da altre
importanti novità: una pagina
finale de L'uso dei corpi, che chiude l'intera opera istituendo un
legame interno, articolato sulla coppia concettuale auctoritas
e potestas, con il terzo libro, Stasis; un intero capitolo, la Nota
sulla guerra, il gioco e il nemico, aggiunto proprio a quel saggio
sullo stato e la guerra civile, la
cui nuova edizione arricchita
giunge in questi giorni in libreria per i tipi di Bollati Boringhieri (Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer II, 2, pp. 114, €15,00); infine la numerazione definitiva e corretta dei diversi titoli, che registrano anche delle variazioni non trascurabili.
Sappiamo bene che in Homo
sacer, 1 Agamben aveva ripreso
sin dal titolo i lemmi centrali
del saggio benjaminiano
(Gewalt: violenza, potere, autorità; e appunto bloßen Leben), riconoscendo la sacertà della
stessa nuda vita, ovvero la sua
separazione nella figura
dell'homo sacer, uccidibile e insacrificabile, come operazione
biopolitica originale. Si era riferito così a Foucault, rifiutandone la periodizzazione. Ma non
solo: aveva sin da allora messo
in luce, definendolo col sintagma ormai celebre forma-di-vita,
un modo dell'essere che si sottrae a quel gesto sovrano, quindi alle relative distinzioni fra
zoe e bios, appunto perché la vita è in esso inscindibile dalla
sua forma, dunque tout court
impossibile da separare e catturare. In quel primo studio,
Agamben aveva poi presentato
tre «tesi provvisorie»: quella
che identificava la relazione
politica originaria nel bando
come «esclusione inclusiva»;
quella secondo cui la prestazione fondamentale della sovranità sarebbe appunto la produzione della nuda vita; quella
che riconosceva il paradigma
della politica occidentale non
più nella città ma nel campo.
La novità è che possiamo finalmente seguire nella sua rigorosa coerenza lo sviluppo di
una ricerca che non dipende
dall'ordine cronologico ma si
dispiega secondo queste tre
grandi linee. Non è quindi il libro su Auschwitz de11998 a seguire Homo sacer, 1, bensì la
complessa sezione di Homo sacer, 2. Questa si apre con Iustitium. Stato di eccezione (dove la prima tesi provvisoria viene archeologicamente situata), a
cui segue Stasis (dove l'interpretazione del Leviatano di Hobbes
come testo escatologico inaugura la ricerca delle origini teologiche della filosofia politica
moderna), e si chiude col Regno
e la Gloria (II,4) e con Opus dei (II,
5) - ovvero con l'indagine sulla
teologia del governo e la ricostruzione della sua funzione liturgica -, passando però per
Horkos. Il sacramento del linguaggio. Sviluppo originale dell'indagine benvenistiana dello ius
iurandum, è questo forse uno
dei libri meno citati di Homo sacer, ma indubbiamente uno dei
più belli e importanti, anche
perché completa la seconda tesi mostrando che il dogma della sacertà della vita si fonda su
una sacratio precedente e capace di investire il linguaggio stesso, cioè su una «consacrazione
del vivente alla parola attraverso la parola» che instaurando il
regno della verità linguistica
rende a sua volta possibile la
funzione performativa dei sacramenti. Si tratta di una precisazione nel contempo coerente con l'illustrazione del bando
come «macchina» biopolitica,
ovvero propriamente giuridico-politica (Homo sacer II, 1) o
economico-governamentale,
che esclude l'inoperosità e la
cattura nella Gloria (Homo sacer
11,4). Nella sua articolazione
teorica, e attraverso una ripresa originale del «modello» di Furio Jesi (la «macchina mitologica»), Homo sacer II offre quindi
un duplice avanzamento archeologico e annuncia - nel finaie di Opus dei - la possibilità
di una nuova ontologia, che si
situerà al di là dell'opera e del
comando sovrano.
Ora, proprio la disposizione dei saggi potrebbe apparire a questo punto sorprendente. La terza sezione dell'opera
comprende infatti un solo titolo, il già nominato Auschwitz. L'archivio e il testimone, che
corrisponde piuttosto allo sviluppo dell'ultima tesi, sul Lager come paradigma politico.
Questo libro si inserisce oltretutto fra Opus dei e Altissima povertà, concepiti una dozzina
d'anni dopo come parti dello
stesso studio. E diviene così, insieme agli altri, nuovamente
leggibile: è infatti solo la filosofia della testimonianza o della
soggettività come «resto» proposta in quelle pagine, è solo
l'idea di una lingua non consacratrice e non performativa,
di una parola in rapporto con
la stessa impossibilità di parola che poteva rendere possibile l'emancipazione dai dispositivi liturgici, dapprima seguendo l'esempio francescano della forma-di-vita come relazione con un inappropriabile, e quindi, nell'ultimo volume (anche in ordine temporale), in una più coerente con-
giunzione di habitus e uso nel
segno dell'inoperosità.
E in questa stessa logica che
le pagine aggiunte adesso a Stasis rivelano tutta la loro importanza. Agamben offre qui una
critica serrata del celebre saggio di Carl Schmitt, Il concetto di
politico (1932), ovvero dell'opposizione «classica» amico/nemico: mostrando giustamente
che essa sí basa su una relazione circolare fra inimicizia e
guerra, ma soprattutto svelando come quella circolarità efficiente, che afferma la «serietà»
del politico e pretende di assegnare pari dignità ai due contendenti, presupponga a sua
volta e dissimuli l'esclusione
dell'aspetto agonale del conflitto, cioè di quell'antico combattimento regolato e fittizio nel
quale Vernant e prima ancora
Brelich hanno riconosciuto il
modello originario della guerra. Se questo primo paradigma, osserva infine Agamben,
era nella Grecia arcaica «consustanziale alla convivenza» e costruiva «rapporti di integrazione e phitia fra gruppi estranei, o
all'interno della stessa comunità ... la guerra come noi la conosciamo è, invece, il dispositivo
attraverso il quale la funzione
agonale-giocosa viene catturata dallo Stato e rivolta ad altri fini». Questa conclusione è tanto
chiarificatrice quanto gravida
di sviluppi. E mentre la prospettiva anarchica di Homo sacer viene decisamente ribadita, anche l'operazione della macchina sovrana appare ora in una
nuova evidenza. Ricordiamo
dunque jesi: la macchina mitologica funziona sfruttando il fenomeno della «reversione» del
mito, cioè in virtù del deliberato mantenimento di un istituto ormai decaduto, che corrisponde anche al suo stravolgimento in negativo. Così, con
l'«accusa del sangue», i cristiani hanno ribaltato in negativo,
contro i «diversi» ebrei, il sacrificio eucaristico che continuavano intanto a rievocare. Così,
potremmo aggiungere - trattandosi di un autore cattolico,
poi nazista, capace di proiettare quell'accusa sulla tradizione messianica del banchetto
dei giusti - la guerra-gioco, un
istituto mitico ormai decaduto, si rovescia in Schmitt nella
guerra come «caso serio (Erstfall)» o nello stato di eccezione,
cioè nella «serietà del politico
come produzione di una vita
uccidibile» (Agamben). Ma ricordiamo anche Benjamin,
che nel 1921 aveva riconosciuto nel sangue il simbolo della
nuda vita. In un appunto del
1936, riferendosi molto probabilmente al Concetto di politico,
egli rivendicava la gaiezza del
comunismo e la forma ludica
(Spielform) dell'abitudine e
dell'uso, opponendole alla
«brutale serietà del fascismo» e
al suo motto «sangue e suolo».
Un secolo dopo Benjamin, indagare il dogma della sacertà della vita significa attingere ancora alle risorse e alle astuzie del
gioco, riscoprendole sotto la
circolarità e il volto contegnoso e truce del «politico»: è con
esse che Agamben ha saputo
nutrire la sua forma-di-vita, sottraendola al lavorio fagocitante della macchina biopolitica.