Recensioni / Pasolini a lezione da Gramsci. Il testo è un ordigno della resistenza

Il recente studio di Paolo Desogus, Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema (Quodlibet, pp. 190, euro 20), si concentra con acume e profondità di metodo su quella particolare modalità di autoriflessione poetica, esposta e persino urlata, »che lo scrittore corsaro ha letteralmente messo in scena nei suoi lavori, anzitutto quando questi si collocano in una fase della vita culturale e civile che segna il perdurante tracollo della dimensione umanistica. Desogus definisce come opere-laboratorio quegli ordigni testuali che, esibendo il loro stesso funzionamento, affermano senza remore la presenza di una poetica autoriale «resistente», ovvero in contrasto con un sistema culturale d'ordine neocapitalistico che rischia di trascinare gli atti simbolici, siano essi testi o pellicole, in un orizzonte neutrale e aderente allo spirito dei tempi.
«Si tratta - scrive lo studioso italiano - di una volontà artistica ostinata che cresce insieme all'esaurirsi degli spazi di libertà espressive e dunque all'impossibilità di scrivere o fare cinema senza giustificare a monte il gesto estetico»: scelta di campo che non solo rappresenta la nostalgica presa d'atto del tramonto di una civiltà ormai incapace di condividere una quota finanche esigua di simboli e significati, ma anche, per Desogus, un gesto militante e politico. Il quale, in Pasolini, si nutrirebbe anzitutto di una lezione che viene dalla linguistica e dalla semiotica e, nello specifico, di una teoria del segno. Non allo scopo di elaborare una qualche strategia estetica che ricordi al lettore o allo spettatore le pretese autonomistiche dell'arte o la sua sostanziale autoriflessività, quanto per «stabilire e conservare un rapporto organico tra l'espressione artistica e i processi storico-politici».
Perché Pasolini, per Desogus, è, al netto delle pervasive influenze dello strutturalismo più audace, uno scrittore-politico che, forte della lezione di Gramsci, converte l'analisi puntuale dei segni e dei sistemi espressivi in un discorso sulle egemonie in campo, ossia in un ragionamento sul grado di compromissione tra universo simbolico e dominante politica. E, in effetti, leggendo lo studio di Desogus, si ha la chiara percezione che l'eresia pasoliniana sia consistita appunto in questo allestimento inesausto di un «sistema-laboratorio» che non si pone solo accanto all'attività artistica nelle forme di una riflessione sullo statuto dell'espressività, bensì penetra in senso metalinguistico e teorico nella produzione letteraria e filmica, quasi fosse - come l'autore non manca di notare ricorrendo a un noto luogo gramsciano - la rivelazione del «ritmo del pensiero in isviluppo». E tuttavia, in uno dei capitoli più riusciti della raccolta, Desogus chiarisce che il gramscismo di Pasolini (come, del resto, il suo rapporto con il marxismo, forse più esibito che reale), più che nella scelta ideologica, è ravvisabile nel perenne verificarsi della pratica artistica nel suo rapporto col tempo e con le estetiche coeve.
Forse è proprio questa concezione laboratoriale del lavoro culturale, che presuppone un rapporto conflittuale con la situazione di classe, che salva Pasolini da esiti che oggi vorrebbero dirsi «biopolitici». La visione pasoliniana del potere non è reticolare; presuppone, al contrario, una logica storico-materialistica fondata sul concetto di egemonia: resta cioè avvinghiata a una concezione, seppure semplificata, del conflitto sociale. Desogus problematizza tale questione e offre un ottimo quadro per potervi ricavare spunti utili al dibattito. Del libro si apprezza inoltre la capacità di individuare e analizzare gli artifici tecnici mediante i quali Pasolini allestisce, di volta in volta, la messinscena della sua autorialità. Risulta convincente il parallelismo che Desogus pone in essere tra la soggettiva libera indiretta del cinema pasoliniano e il più comune discorso indiretto libero di matrice letteraria: entrambi sembrano dirigersi verso un'interazione con la realtà che è anche e soprattutto discorso sul mostrare e sul vedere, e dunque, nel caso delle pellicole studiate dal critico, «visione metalinguistica», che però svela una più profonda necessità storica e politica. Sta forse in questo, per Desogus, il senso della militanza pasoliniana: in una ferrea volontà di capire sottoposta a una continua trasformazione e a un dinamismo che coinvolge, senza reaule, teoria e prassi.