Recensioni / Migliorare le periferie? Il disegno non basta

Il saggio che Ruben Baiocco dedica al più complesso tra i progetti delle new towns inglesi - L’ultima New Town. Milton Keynes tra welfare e scelta individuale (Quodlibet, 2017) - merita un’attenzione che va oltre quella che si deve a un saggio accademico, sia pure ben argomentato, come in questo caso. A Baiocco sono stati necessari dieci anni per poter trasformare la sua tesi di dottorato in una pubblicazione definitiva e, forse non a caso, le mutate condizione dei temi intorno ai quali si concentra oggi la riflessione sulle questioni urbane ha convinto l’editore a pubblicare i risultati di quella ricerca che ha oggi molto di utile da dire nello spesso sterile gran parlare che si fa della condizione delle periferie urbane.
La vicenda è nota. Sin dalle prime fasi della seconda guerra mondiale, l’Inghilterra affronta le distruzioni dovute ai bombardamenti nazisti con lo spirito di chi non dubita che, risolto vittoriosamente il conflitto, si tratterà poi di ricostruire quanto è andato perduto. Il Leader of the London County Council, Charles Latham, incarica per questo John Henry Forshaw e Leslie Patrick Abercrombie di redigere il piano per la ricostruzione. Forshaw è in quel momento architetto presso il Council and Superintending Architectur of Metropolitan Buildings e ha lo speciale incarico di dirigere il London Heavy Rescue Service, il servizio cui è affidata la rimozione delle macerie degli edifici bombardati. Abercrombie è professore di Town and Country Planning dell’Università di Liverpool. Nel 1943 il loro piano è pubblicato con il titolo di County of London Plan. Le determinazioni che sostengono il piano sono due:
a) le aree bombardate vanno intrepretate come opportunità per il ridisegno degli isolati sulla base della armonizzazione della prossimità delle attività produttive con le strutture della residenza;
b) il recupero della dimensione della comunità locale tradizionale sarà lo strumento antagonista da opporre allo sviluppo incontrollato della città che nel tempo ha fagocitato le antiche comunità disperse nella campagna.
Un anno dopo, il 1944, con la guerra ancora in corso, Abercrombie pubblica il suo The Greater London Plan, formalizzando l’idea della costruzione di un’intera serie di nuove città/comunità urbane per una popolazione variabile tra i 25.000 e gli 80.000 abitanti; tutte a una distanza da Londra di circa 50 chilometri. In conseguenza del New Towns Act del 1946, nella prima fase del programma, si costruiranno intorno a Londra sette new towns (alcune ad integrazione di villaggi preesistenti), da Stevenage, la prima (1947) a Bracknell (1949) e altre sei, nel resto del paese; ultima della prima fase Corby (1950) a 150 di chilometri dalla capitale.
Il saggio di Baiocco ripercorre con precisione e intelligenza questa vicenda, con l’intento soprattutto di interpretarne la fine, quella che coinciderà con la costruzione di Milton Keynes, realizzata a partire dal 1970, anno di stesura del suo nuovo piano. Baiocco sottolinea con efficacia come la nuova iniziativa urbana sia impostata sulla precisa volontà di produrre una rottura rispetto all’esperienza maturata nelle due fasi precedenti del programma: a questa new town corrisponderà cioè «un programma di azione e non un disegno per una nuova città ideale» (p.60). Milton Keynes è pensata per raggiungere in venti anni i 250.000 abitanti; non più una piccola «città giardino» da collocare ai margini di un centro urbano più grande, ma una vera e propria autonoma nuova città. Non una cittadina che poggia la sua ragione sulla capacità di ricevere l’indotto produttivo e le residenze in esubero nelle aree industriali esistenti, ma una città capace di offrirsi come strumento per lo sviluppo dell’economia di un’area e dell’intero paese.
Non serve qui ripercorrere il sentiero tracciato da Baiocco, che merita di essere visitato per intero, nel suo saggio. C’è tuttavia un punto nel testo (a tutti gli effetti un saggio accademico nella migliore accezione) in cui la sua ragione di attualità trova una interessante condizione di utilità: è il 4° capitolo della 3° parte, Il piano e i suoi dispositivi urbanistici, dedicato a: Disseminazione di servizi e centralità locali (pp.163-174). A Milton Keynes i servizi non sono più considerati servizi di prossimità, secondo la vecchia impostazione dell’unità di vicinato (Perry 1929). Piuttosto l’«Utilities Dissemination che il piano propone, dovendo rispondere ad una domanda postulata come non data e/o comunque in continua mutazione, si configura come una composizione variegata di servizi non determinati a priori, dal punto di vista dei tipi e della quantità, e in relazione agli sviluppi dei processi di urbanizzazione». E ancora: «Ai local activity centres, pertanto si assegna la funzione di catalizzatore di servizi di varia natura, sia pubblici che privati non predefiniti [capaci di porsi come] ancoraggio dei nuclei residenziali dispersi e delle modalità non motorizzate di relazioni fisiche continue interne ai settori». Insomma dice Baiocco con questa innovazione progettuale, si supera la settorializzazione delle iniziative pubbliche; si va oltre la dimensione della «località» e si definisce un sistema di «attrattori locali che invitano gli abitanti-utenti a muoversi internamente tra un settore e l’altro».
Anche se ci piacerebbe pensare che il nome di questa ultima new town possa essere stato ispirato da quello di John Maynard Keynes - l’economista teorico dell’intervento dello Stato a sostegno dell’economia (e dal poeta John Milton, come amava dire Lord John Campbell of Eskan, chairman della Development Corporation per la new city) - Milton Keynes era il nome di uno dei villaggi del Buckingamshire inglobati nel perimetro della nuova città. Del resto, però, la scelta non è forse caduta a caso su un nome così evocativo di politiche economiche, piuttosto che su Bletchley o Fenny Stratford, Wolverton o Stony Stratford, i maggiori fra gli altri villaggi (14 in tutto) compresi entro il nuovo perimetro urbano. Baiocco cita Lord Keynes e le sue «teorie di intervento di politica economica» (p. 27), associandole al clima politico che ha portato al New Town Act sin dalla primissime fasi del conflitto (1941), ma correttamente non si allontana dal rigore scientifico che consiglia cautela nei confronti di ipotesi non dimostrabili. L’urbanistica degli anni ‘60 è però ben consapevole della sua funzione attiva nei processi economici. Secondo la definizione di urbanistica formulata da Giovanni Astengo nel 1966, il piano è uno strumento «creativo», uno strumento cioè il cui compito è quello di creare le condizioni ambientali necessarie allo sviluppo economico. Da allora, in Italia, l’urbanistica ha scelto prima la via della esasperazione normativa e, in ultimo, la via del progetto urbano, sempre più orientato verso le secche della progettazione formale.
Non serve andare oltre con questo commento, per cogliere l’importanza, sottolineata da Baiocco nel suo saggio, che un progetto come quello di Milton Keynes ha dato (dà) all’interpretazione di un sistema urbano, nuovo o vecchio che sia, da considerare come sistema di relazioni proiettate in un futuro non immediato, da mettere piuttosto nelle condizioni di esprimere una sua propria progettualità progressiva e collettiva, da non ingabbiare in un disegno che per quanto ben fatto, non può che essere di breve durata.
La lettura di questo saggio è per questo una utile fonte di suggestioni per tutti coloro: amministratori, attori sociali, investitori progettisti (architetti poco avvezzi alle regole della pianificazione) che immaginano che per affrontare la reinterpretazione delle periferie urbane sia sufficiente modificarne in qualche punto il disegno.