Recensioni / Morante, la storia della Storia

il 16 maggio del 1975, a 1.-2 quasi un anno dall'uscita del romanzo - più di 650 pagine - di Elsa Morante, quando Anna Maria Ortese così le scrive: «La stima che ho di Lei, persona umana, è molto alta. Come scrittore, solo poche Sue pagine di sicura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana. Con un dolore più vicino». Notevole osservazione, questa: se si sa riconoscere in quell'immane romanzo, apparentemente melodrammatico, le campiture d'una tradizione italiana, che - quando di cieli si parla - non può non essere soprattutto pittorica.
La lettera non è inclusa, stranamente, nel documentatissimo e avvincente libro di Angela Borghesi, ovvero L'anno della Storia 1974-1975 (Quodlibet, pagine 922, euro 34,00), significativamente sottotitolato Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante. Cronaca e Antologia della critica: in cui, accanto a un lunghissimo saggio della stessa Borghesi, ci si restituisce tutti gli interventi critici più importanti sul romanzo (quasi 500 pagine) ricavati dai circa 350 articoli usciti in quel biennio, insieme a una Bibliografia analitica 1974-1976, ove il lettore potrà trovare pure un'appendice sulla "pubblicità editoriale", relativa al lancio a stampa del libro. Strana assenza della lettera, dicevo: perché nel volume di Borghesi si fa ricorso proprio a tutto quanto si sia potuto ricavare dagli archivi privati e pubblici, senza trascurare le testimonianze personali. Il risultato consente, finalmente, di cominciare a pesare in modo filologicamente pertinente l'importanza di Morante nella storia della letteratura italiana contemporanea.
Mi si consenta un consiglio al fortunato lettore di questo libro: inizi a sfogliarlo qua e là, spigolando in libertà, andando a verificare le reazioni, talvolta davvero sorprendenti, dell'uno o dell'altro recensore. Magari cominciando dall'inattesa stroncatura del sodale Pasolini, su «Tempo» del 26 luglio 1974, che compromise ulteriormente la loro grande amicizia: dove, accanto al riconoscimento di parti molto belle, il poeta friulano denuncia apertamente molti limiti del romanzo, tra i quali il manierismo di personaggi «declamati, improbabili, irreali». Soltanto dopo quel lettore si dovrà disporre al saggio di Borghesi, che ricostruisce dettagliatamente tutto il ricco dossier, procedendo con felicità quasi narrativa, mese dopo mese, sempre refertando. Un saggio che muove, con mossa brillante, dalla clamorosa assenza dal dibattito d'uno dei più autorevoli intellettuali del momento, Franco Fortini, il quale «non prese posizione»: proprio lui che, al suo specialissimo modo, era stato uno dei protagonisti tanto nella polemica sul Metello di Pratolini, quanto in quella sul Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Nessun intervento pubblico di Fortini, il quale però segue tutto con attenzione (fece persino un seminario all'Università) e non si risparmia commenti privati, come, per dire, nella lettera che invia a Romano Luperini il 16 ottobre 1974: «Una sola rapida lettura non mi basta a un giudizio». E poi: «Così a occhio sarei duro col libro e assai più duro con tutta una specie di lettori che disprezzano il libro». Infine, con perfida ma sublime intelligenza critica: «Nella sostanza mi par d'essere molto vicino a quel che ne ha scritto Pasolini; che quando vuole insegnare il cristianesimo al papa, fa ridere, ma quando, come critico, si impegna, è sempre molto bravo». Lo stesso Fortini che così scriverà otto anni dopo: «Quello è libro su cui si dovrà ripensare». Morante scrive, nel nome della Storia, un romanzo che si congeda amaramente dalle sue magnifiche sorti e progressive, per approdare a una disperata epopea di vinti che sono senza futuro, e dalla Storia per così dire giustiziati senza sentenza, andando incontro a una sconfitta che investe forse tutto il genere umano, in quanto tale. Lo scandalo del suo romanzo fu soprattutto ideologico. Non per niente gli interventi che oggi risultano più imbarazzanti, e sempre al limite della sciatteria linguistica, sono quelli degli intellettuali più politicizzati: provate a leggere, per dire, Alberto Asor Rosa su «La Fiera Letteraria» del 16 ottobre del 1974, o l'attacco durissimo d'un collettivo di scrittori capeggiato da Nanni Balestrini che, con greve perentorietà, così s'esprimeva su «il manifesto» del 18 luglio: «Allora, compagni: oltre che dei decretoni, cominciamo anche a difenderci dai romanzoni». E poco prima: «La Morante è oltre tutto una mediocre scrittrice, e la sua scrittura non riscatta per niente, anzi conferma pesantemente la sua ideologia». Come non andare, allora, a rinfrancarsi con quel critico beatamente empirico che fu Geno Pampaloni, sempre limpido, convincente ed elegante, che Fortini - una volta suo amico - ha poi sempre ritenuto il suo antagonista nemmeno troppo segreto? Ma voglio concludere con uno straordinario intervento di Luigi Baldacci su «Epoca» del 20 luglio che, anche qui confermandosi tra i più grandi - se non il più grande - critici italiani del secondo Novecento, definisce La Storia, con ammirazione, un «romanzo "pascoliano "». In che senso? Nel senso di cancellare la "rabbiosa" scomunica di Croce ai danni di Pascoli, sancendo il divieto di praticare una poesia che non ignorasse i sentimenti e le lacrime. Ecco: ignorando i diktat della Neoavanguardia, Morante aveva scritto un romanzo-fiume che, «senzavenir mai meno alla rigorosa tenuta letteraria», poteva finalmente essere letto da tutti. È vero: il corpaccione d'un genere letterario sepolto era stato risuscitato e risospinto sulle strade della vita.

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