Come si deduce dal titolo di questo stimolante saggio, l’a. propone una breve
storia della critica letteraria marxista attraverso l’analisi di alcuni dei principali
“eredi” del gramscismo in ambito letterario (da Franco Fortini ad Alberto
Asor Rosa, da Carlo Muscetta a Carlo Salinari passando per Romano Luperini e
ad Arcangelo Leone De Castris, al quale si dedica particolare attenzione) che
avrebbero, in un certo senso, travisato le indicazioni metodologiche gramsciane
in ambito letterario.
Secondo l’a., nel «dinamismo» – e dunque nel perenne modificarsi della
teoria in relazione alla pratica – risiederebbe «il nodo che lega le modalità della
critica letteraria gramsciana ai problemi fondamentali del materialismo storico»,
ovvero «nel carattere di processualità sia della pratica critica che dell’oggetto
del conoscere» (p. 11). Nonostante emerga, in molte riflessioni di ambito
letterario (a partire da Giuseppe Petronio) la necessità di «legare la riflessione
gramsciana sull’arte al problema decisivo dell’egemonia e del materialismo
storico» (p. 9) alla teoria non avrebbe fatto seguito una coerente azione
pratica. Gatto rileva fin dal preambolo come la mole enorme di studi su
Gramsci anche in ambito letterario (che rientra in quella Gramsci Renaissance
che a partire dagli anni Novanta del secolo scorso non ha più conosciuto
battute di arresto), «gran parte della bibliografia secondaria sui rapporti tra
Gramsci e l’attività critica e sulle relazioni tra Gramsci e la riflessione sulla letteratura»
(p. 7) abbia visto la luce prima della fondamentale pubblicazione
dell’edizione critica dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana (1975) considerata
giustamente un momento fondamentale per gli studi su Gramsci, uno
«spartiacque capace di ridisegnare il dibattito postbellico» (p. 8).
Nel primo del quattro capitoli nei quali si struttura il volume, si analizza il
rapporto di Gramsci con l’idealismo italiano (sublimato dalla figura del “gigante”
Benedetto Croce), con particolare attenzione al concetto di nazionalepopolare
mutuato dalla lezione di De Sanctis sul quale si sarebbero cimentati
decine di studiosi negli anni successivi. Si trattava, per Gramsci, di rispondere
alla domanda «Che cosa legge il popolo» (p. 38) e di misurare «la distanza
[…] tra la cultura ufficiale e tradizionale […] e il sentire delle masse popolari»
(p. 32) che si traduce nei consumi culturali e nella produzione letteraria.
Ridurre questa distanza sarebbe stato il compito degli intellettuali vicini a Pci
degli anni Cinquanta e Sessanta che così tanta attenzione rivolsero al rapporto
tra lavoro intellettuale e politico ma che spesso non riuscirono ad elaborare
la necessaria «base teorica» per affrancarsi da uno «storicismo ottocentesco
di marca partenopea» al quale contrapporre quello «umanistico e dialettico di
impronta gramsciana» (p. 81). La «dissoluzione del paradigma gramsciano»
pare ultimarsi, di fatto, tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui si palesa «l’assenza
[…] di una riflessione tecnica e ideologica sulla letteratura, sul metodo
di lettura, sulle relazioni con la totalità che […] ci consegna un vuoto teorico
non di poco conto» (p. 158) che corrisponde, di fatto, all’«oblio di Gramsci».
Nell’ultimo capitolo, l’a. conclude il suo ragionamento rilevando come sia
mancata, in Italia, «una produzione teorica in grado di elevarsi a filosofia cosciente
dell’operatività critica» (p. 181). Le conseguenze di tale mancanza sono evidenti
e si traducono in una “frammentazione” culturale basata su un’autonomia
dei saperi fondata su un “ultraspecialismo” spesso fine a se stesso.
Ripartire da Gramsci potrebbe essere un antidoto al «disorientamento
intellettuale» (p. 180) nel quale da troppi anni siamo immersi. Non possiamo
che condividere tale auspicio.