Recensioni / Michaux e gli abissi della conoscenza

I paradisi invecchiano e le droghe annoiano,o anche viceversa. In tutti i casi non era, quello di Henri Michaux (1899-1984), il tempo dei paradisi artificiali, che Charles Baudelaire già traduceva e rimasticava dall’oppiomane Thomas De Quincey. Meglio cambiare aria e, fuori dalle fumerie, cercare altra roba: di prima scelta e di prima mano.
“Le droghe ci annoiano col loro paradiso”, scriveva il belga, irrequieto e intossicato “viaggiatore controvento” – che alla bisogna, e a scanso di astinenze, poteva spiccare il volo anche restando fermo – avviando il diario delle esplorazioni allucinogene compiute per un decennio dagli anni Cinquanta del XX secolo. E così lo datava: “Il nostro non è un secolo da paradisi”. Meglio sondare gli abissi dell’inferno allora. Preferire l’ebbrezza della conoscenza e dei suoi frutti all’estasi paradisiaca che, pur sempre terrestre, rotta dai morsi del serpente e della mela, era comunque destinata a durar poco. Alla caduta Michaux puntava dal principio. “Ogni droga modifica i vostri sostegni”, scriveva: quelli offerti “a voi dai vostri sensi” e “quelli costituiti per i vostri sensi dal mondo”. Era il suo punto di forza: rinunciare a ogni punto di leva. “Farsi cadere”. Sulla spinta della mescalina “fatta per demistificare”, per sfatare mistificazioni e accessi mistici. O sull’ala dell’Lsd. Sui campi di canapa indiana. O sul terreno della psilocibina tolta al fungo che l’indiano del Messico chiamava “teonanacatl”, “carne di Dio”, e che “Conduce là dove c’è Dio”, prometteva.
Ma già dal primo boccone faceva vacillare cosicché, per prima cosa, “in genere si lascia cadere la matita”. Poi però la matita Michuax la raccoglieva di nuovo, ci si teneva aggrappato per far presa sull’insorgere del pensiero nel punto limite dove “non è più possibile appoggiarvisi”. Prova ne è il libro che, uscito nel 1961, gli valse la fama tra hippies, lotofagi e figli dei fiori. Ovvio che il testo poteva – e doveva - dare adito a mille fraintendimenti.
Composto com’è da “tennis di sinonimi”, “tapis roulant” di sillogismi impazziti e ragionamenti
concatenati che girano a vuoto senza portare da nessuna parte. Di incursioni dietro le parole, fughe dal tempo, furti o smarrimenti delle idee: “Dove le avranno messe?”. Il trip tossico, l’escursione allucinogena non fu perciò, evidentemente, per Michaux un pretesto per ritrovarle o per inventarne.
Né l’esperimento con le droghe fu per lo scrittore, poeta e pittore (solo) un espediente di laboratorio per stimolare l’inspirazione: insufflata nel naso con le polverine. Fu piuttosto un lungo viaggio di ricognizione nelle zone occulte, insondabili, infernali del pensiero. Accessibili a chi, con il proprio pensiero, smette “di essere collegato”, “di orientarcisi”.
Rivelate, senza estasi, epifanie o miracoli, nel gabinetto del diavolo dove l’osservatore guarda tutto dal punto di vista della cavia.