Recensioni / L'impotenza della non-fiction. Estratto da Storiografie parallele

Una consapevolezza sottostà ad alcune delle “storie vere” più interessanti del panorama italiano: quella dell’impotenza, che sembra cogliere gli scrittori che affrontano la cronaca e, ampliando il discorso, riflette la paralisi della letteratura di fronte alle atrocità del mondo. Ma cosa si vuole indicare di preciso con questo termine? L’impotenza, nel contesto letterario attuale, è strettamente legata alla scelta di una narrazione diretta della cronaca: spesso, ne è all’origine, come discorso di riscatto morale, di redenzione degli oppressi e, simultaneamente, di (auto)ritratto vittimario. Nel corso di questo lavoro ho sottolineato che si sceglie la non-fiction perché si vuole raccontare la cronaca rifiutando la petizione di principio dell’equivalenza dei discorsi (storico e di finzione). Per portare a compimento questo rifiuto, un discorso di apparenza autentica viene costruito sulla «testimonianza, l’esperienza diretta, la compromissione dello sguardo che esibisce la soggettività della ricostruzione e che, anzi, cerca in essa la propria credibilità». Ma un simile grado di coinvolgimento porta a una conseguenza implicita: se il cronista-testimone decide di implicarsi negli eventi che racconta, lo fa anche perché è mosso da un desiderio di intervenire, direttamente coinvolto, sulla Storia. La narrazione fattuale viene adoperata per rifiutare l’impartecipazione e l’anestetizzazione dello spettatore, reso incapace di influire sull’esito degli eventi: siamo in una crisi dell’esperienza che è diventata, nota Giglioli, «habitus, altra natura, condizione trascendentale di ogni attività pratica e simbolica», e che riprende i presupposti della crisi dell’esperienza forse più famosa teorizzata nel Novecento, quella di Walter Benjamin. Nel saggio Il narratore Benjamin riflette:

È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze. Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?

Il contesto odierno mantiene questo legame fra l’eccesso d’informazione e la percezione della propria “inesperienza” (causata fra gli altri motivi, sostiene Benjamin, proprio dall’eccesso di notizie cui si accede). Vista la proliferazione della cronaca su canali disparati (televisione, Internet, reportage giornalistici), per cui siamo costantemente sollecitati da narrazioni estreme provenienti da ogni parte del mondo, si potrebbe affermare che nel quadro attuale si ha a disposizione un surplus di «esperienza comunicabile» ed effettivamente trasmessa, ma è un’esperienza in larga parte riferita, che riguarda altri, che pretende di coinvolgerci suggerendo che “si tratta anche di noi” ma sortisce l’effetto opposto. Una relazione di proporzionalità inversa sembra essersi istituita fra l’eccesso di esperienza narrata (la quale, ricordiamo, per Benjamin ha caratteri autoptici e testimoniali che presentano analogie con la non-fiction e si distacca dall’isolamento individuale che la fruizione del romanzo richiede) e l’esperienza diretta del mondo: quante più narrazioni traumatiche e “dirette” ci vengono proposte, tanto meno ci sembra di essere in grado di conoscere direttamente la realtà.
Da questa angolazione, mi pare, va inquadrata la percezione dell’inesperienza, per come è teorizzata, nella critica letteraria, da recenti rielaborazioni di Benjamin. Nella Letteratura dell’inesperienza (2006) Antonio Scurati parte dal presupposto che «la letteratura (intesa come insieme delle operazioni di scrittura e di lettura) e l’esperienza stanno oggi dinnanzi a noi come le due metà non combacianti di una tessera spezzata e non più ricomponibile». Al contrario, mi sembra che l’eccesso di «esperienza comunicabile» crei un effetto ottico che fa credere di non poter avere più nessuna esperienza autentica del mondo. Se è innegabile che non viviamo più in prima persona il trauma bellico («La guerra era ora una realtà deprivata della sua esperienza»), a causa dell’«imponente crescita di forme di esperienza mediata», è altrettanto vero che si continua a fare esperienza di molte altre cose, dal vivo: quanto all’esperienza mediata, non sembra che essa conduca all’atrofia e all’inerzia mentale che Scurati disegna nella Letteratura dell’inesperienza. Al contrario: sollecitati da continue testimonianze “in presa diretta” che ci richiedono una reazione emotiva e pre-razionale, gli spettatori occidentali paiono affetti da ipersensibilità. Presa diretta e coinvolgimento personale accomunano l’infotainment, la cronaca e molta della non-fiction che ci interessa: il nodo centrale è una possibilità rinnovata di avere esperienza del mondo, nel rifiuto sistematico di un’iperstimolazione emotiva che accumula un dramma irrilevante dietro l’altro. Lo scrittore di non-fiction cerca di strappare le cose al flusso dell’informazione, col fine di creare sulla pagina situazioni che riportino l’esperienza al centro: se la sua testimonianza non è di primo grado egli, inseguendo il fantasma dell’autenticità, la ascolta dalla viva voce delle vittime, dei carnefici, dei passanti, cerca comunque di mettersi al centro della scena, con inserzioni autobiografiche e autoritratti performativi (come nel caso del personaggio di Saviano in Gomorra). L’inflessione del suo discorso combatte l’atrofia dell’esperienza diretta, rinsaldando un patto veridico (che ha natura affine al patto autobiografico) con il lettore-ascoltatore. Il nodo, in questo frangente, non è la constatazione dell’impossibilità di fare esperienza diretta del mondo: invece, ciò che anima le narrazioni non d’invenzione è lo sgomento di fronte a una continua sensibilizzazione (alla lunga anestetizzante) sui disastri raccontati dall’informazione, a cui non segue un intervento concreto per correggere le ingiustizie ed emendare i traumi della Storia. In una scrittura di cronaca, non si può correggere il racconto della realtà con la finzione (se non in minima parte, rispettando un equilibrio molto delicato per restare in un regime di verità storico), ma solo riferirla. Ne deriva uno stallo del narratore-testimone, che è condannato a raccontare l’esperienza attraverso la lente della frustrazione, a trasmetterla insieme a una constatazione che affligge anche i lettori: la trasmissione di una verità personale sul mondo è inseparabile da un’ammissione d’impotenza a cambiarlo. Dalla contraddizione, all’interno di un regime di verità storica, la non-fiction non riesce a uscire.
Persino un testo come Gomorra, in cui Saviano riveste la sua testimonianza parziale di un’autorità molto forte (tramite l’autoinvestitura “pasoliniana” del viaggio a Casarsa, la rottura con una modalità storica obiettiva e impersonale, la postura quasi eroica) e prende con serietà drastica il suo compito di cronista nella convinzione che la letteratura possa contribuire a cambiare le cose, tematizza questa impotenza nella figura del protagonista. Saviano assiste agli eventi drammatici di cui parla, restando però una comparsa, un osservatore casuale che non può alterarne il corso: non stupisce che uno dei tratti ricorrenti (e meno analizzati) del suo personaggio sia una rabbia sorda e non sfogata, che produce in lui fantasie di vendetta e desideri di rivalsa. Nel passaggio sul «potere del cemento» detenuto dai clan camorristi, la morte in cantiere del muratore Francesco Iacomino, avvenuta fra l’indifferenza generale, genera una reazione di rivalsa sterile, covata di nascosto, che sfocia nell’atto simbolico del pellegrinaggio sulla tomba di Pasolini:

Con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di quelle che somigliano più a un attacco d’asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un’esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra. Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria, sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini.

Il rifugio nella fantasia terroristica è il segno della paralisi dell’azione nel testimone. Saviano, come avviene talvolta in Gomorra, estrinseca e teatralizza la sua rabbia, soffermandosi sulle reazioni fisiche che lo prendono nel riferire l’ennesimo crimine, quasi l’impotenza fosse una malattia («attacco d’asma», «smania nervosa») da cui lo scrittore non riesce a liberarsi, se non con un gesto altrettanto simbolico e in fondo teatrale che conferma la diagnosi. La visita alla tomba di Pasolini appare quindi un atto gratuito che ci rassicura circa la perentoria assunzione d’impegno del narratore, ma suggerisce sotto traccia un’ammissione di debolezza: l’ambito degli atti dimostrativi e isolati è l’unico in cui l’autore si muove con pieno diritto. Mentre visita la villa della famiglia del boss Walter Schiavone, sequestrata dalla polizia, Saviano si ritrae nel compiere un’altra performance indirizzata a tutti e a nessuno. Sale al secondo piano, entra nella vasca da bagno di lusso di Schiavone, «una traccia della sua potenza di costruttore e di camorrista», senza farsi vedere da nessuno. La scena può apparire lievemente improbabile: inizia in medias res con Saviano che si «aggirava per quelle stanze annerite», senza spiegare come abbia fatto a penetrare in una villa probabilmente sorvegliata da «qualche palo del clan» (Ibidem). Ma i dettagli attendibili importano fino a un certo punto, perché la sequenza è tutta funzionale a un apice drammatico in cui Saviano dà sfogo a una rabbia che incarna eroicamente quella di un’intera città oppressa. L’espressione dello sfogo passa per la corporalità esasperata:

Mi cresceva dentro una rabbia pulsante, mi passavano alla mente come un unico blob di visioni smontate le immagini degli amici emigrati, quelli arruolati nei clan e quelli nell’esercito, i pomeriggi pigri in queste terre di deserto, l’assenza di ogni cosa tranne gli affari, i politici spugnati dalla corruzione e gli imperi che si edificavano nel nord dell’Italia e in mezz’Europa lasciando qui soltanto monnezza e diossina. E mi venne voglia di prendermela con qualcuno. Dovevo sfogarmi. Non ho resistito. Sono salito con i piedi sul bordo della vasca e ho iniziato a pisciarci dentro. Un gesto idiota, ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio (Ibidem).

La natura di sfogo insensato è riconosciuta apertamente. La performance di Saviano non intacca lo svolgimento dei fatti, è irrilevante rispetto a essi, ma funziona come un segnale indirizzato ai lettori per contestualizzare il ruolo del narratore: immerso dentro gli eventi, è impossibilitato a tutto fuorché a parlarne, in uno stallo ricorrente. Il finale del libro è del resto una reiterazione di dissidio messa in figure. In una scena postapocalittica e stravolta, che cita esplicitamente un passaggio del film carcerario del 1973 Papillon, Saviano racconta di essersi lanciato sopra un enorme frigo per evitare di sprofondare in un pantano che rappresenta con una metafora esplicita le sabbie mobili del sistema criminale. Lo scenario è spettacolare, con un’eco cinematografica che viene ammessa subito con il parallelo fra sé e un ergastolano evaso: perché, ci si è chiesto, colorare l’episodio con la patina della citazione? Un motivo potrebbe essere che l’atmosfera da film sottolinea il carattere dell’atto di Saviano, sospeso fra fantasia d’evasione («un pensiero ridicolo», Ibidem) e sfogo fisico non meditato («in alcuni momenti non c’è altro da fare che assecondare i tuoi deliri come qualcosa che non scegli, come qualcosa che subisci e basta», Ibidem). Il galleggiamento sopra il frigorifero in una palude deserta è insomma un altro sfogo senza spettatori all’infuori di chi legge, un gesto estetizzante che si trascina nel suo essere di secondo grado. È incerto se il grido di sfida lanciato ai camorristi (che non sono presenti) sia stato davvero pronunciato. Saviano esprime solo il desiderio di lanciarlo:

Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni, come Papillon, con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi i polmoni, come Papillon, con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: «Maledetti bastardi, sono ancora vivo!» (Ibidem).

Nell’urlo rimasto in gola e nella recita dimostrativa si nota bene la nevrosi dello scrittore di non-fiction. Il personaggio di Saviano può intervenire sui fatti solo con atti simbolici, proteste separate dalla realtà da un diaframma impalpabile: su un altro piano, se l’autore si raffigura in azione, non può che raffigurarsi mentre sogna, sulla pagina, di agire.