Ardilut, in lingua friulana, indica la valerianella
o dolcetta, delicata pianta spontanea che aveva scelto Pier Paolo Pasolini
quale simbolo degli almanacchi
usciti per L'Academiuta
di Tenga furlana. Ardilut
è anche il nome della nuova
collana di poesia bilingue
curata da Giorgio Agamben
per Quodlibet. Il primo titolo
ci riporta proprio a Pasolini,
I Turcs tal Friùl (pagg.
180, euro 17,00), che il pittore
e poeta goriziano Ivan Crico
ci restituisce nella versione
poetica italiana, mentre
Graziella Chiarcossi nella traduzione
letterale.
Crico è uno studioso di letteratura
dialettale, l'ha fatto
con poeti e critici come Amedeo
Giacomini, Gian Mario
Villalta e Pierluigi Cappello
con cui ha fondato anche la
popolare serie de «La Barca di
Babele». La sfida messa in atto
da Agamben è audace, da
sempre si discute sulla priorità
linguistica dell'opera pasoliniana
e dal punto di vista
poetico non si può non essere
d'accordo con il filosofo romano:
«Se il baricentro dell'opera di Pasolini - scrive nell'introduzione
- va decisamente
spostato negli anni friulani, l'ipotesi
che tentiamo qui di argomentare
è solo un'attenta
lettura delle sue riflessioni
sul dialetto e la lingua può fornire
il bandolo per orientarsi
in un'opera almeno in apparenza
aggrovigliata e contraddittoria».
D'altra parte la questione
tra scrittura dialettale
e in lingua ha le sue radici già
in Dante e all'Alighieri Agamben
riconduce Pasolini, quanto
a riflessioni filologiche e sociali.
La resa in versi realizzata
da Crico non era un'operazione
facile, soprattutto perché
I Turcs è testo già di per
sé fortemente musicale. Ma
come mai questa riedizione?
«Si tratta di un'opera di Pasolini,
rimasta inedita in vita,
scritta ad appena vent'anni -
osserva Crico-pubblicata subito
dopo la morte e ristampata
nel '92 e diventata presto introvabile».
Un'opera tuttavia per
molto tempo dimenticata...
«L'opera ha goduto per un
periodo di una certa visibilità
dovuta, soprattutto, alla
splendida messa in scena di
Elio De Capitani, prima di ripiombare
nell'oblio. Ricompare
poi nel Meridiano dedicato
agli scritti teatrali, oscurata
però da testi più celebri;
un volume che non ha contribuito
di certo a valorizzarla
come avrebbe meritato».
E che ora va a inaugurare
la nuova collana poetica di
Agamben.
«Si tratta di un libro molto
particolare, con due proposte
diverse di traduzione del testo:
una letterale, di altissimo
valore, curata dalla cugina di
Pasolini, la filologa Graziella
Chiarcossi, ed una del sottoscritto,
dichiaratamente libera,
una "rispettosa eresia",
non meno accomunata da un
sentimento di sacra devozione
al testo originale».
C'è stata comunque una
precisa intenzione da parte
del filosofo per questa scelta.
«L'idea di una traduzione
in versi non parte da me.
Agamben si era imbattuto nelle
mie poesie interessandosi
al mio modo, non piattamente
letterale, di tradurre i miei
testi in italiano. L'idea si sviluppa
dall'intuizione che la sola
traduzione letterale di una
lingua così musicale, potrebbe
far sorgere in qualche lettore
meno avveduto il dubbio
che possa trattarsi di un'opera
minore. Da qui l'esigenza
di allarmarlo, suggerirgli che
ci troviamo, invece, di fronte
ad un'opera di altissima poesia».
Qual è la sua attualità?
«Il testo pasoliniano ci parla
di antiche invasioni nel
Friuli rinascimentale per parlare,
al tempo stesso, del Friuli
minacciato dalle truppe naziste.
E direi, profeticamente,
anche di ciò che stiamo vivendo
oggi. Pochi altri libri ci parlano,
con la stessa lucidità ed
intensità, delle sfide a cui siamo
chiamati in questo momento».
Si tratta di un'operazione
piuttosto audace. Lei scrive
versi in bisiaco, come ha affrontato
un testo in friulano?
«Studio la lingua e la letteratura
friulana fin da ragazzo,
inizialmente proprio per
leggere le poesie giovanili di
Pasolini direttamente in originale.
Ho lavorato quindi da
subito soltanto sul testo originale
in friulano, anche con l'aiuto
dello studioso Federico
Vicario; e solo in un secondo
momento ho letto la versione
in lingua della Chiarcossi e mi
sono confrontato con lei».
E la sua lingua rispetto a
quella pasoliniana?
«Ho scoperto che Andreina
Ciceri raccontava che il giovane
Pasolini aveva l'abitudine
di fare delle versioni poetiche
delle sue prose. In questo lavoro
Pasolini adotta l'endecasillabo
nei cori dei Turcs,
che sono gli unici punti in versi.
Per chi conosce la lingua
friulana, l'intera opera sembra
però ritmata adottando,
mentalmente, una metrica similare.
Per cui ho proposto di
lavorare con versi liberi, per
evitare eccessive forzature,
però cercando di imitare al
tempo stesso questa “durata”
musicale del verso, la musicalità
del testo originale».
In un'ipotetica classifica
pasoliniana dove posizionerebbe
I Turcs tal Friùl?
«È uno dei grandi capolavori
del '900 da riscoprire, superiore
forse ad altre ben più celebrate
opere di Pasolini. Con
questo nuovo progetto editoriale,
che esce assieme a
un'antologia in dialetto di
Zanz otto e unvolume di Francesco
Giusti, la volontà è di
sottolineare la straordinaria
qualità della grande produzione
poetica nei vari idiomi
storici italiani».