Recensioni / Per un contrabbasso galleggiante

16/7/2009. Rileggo alcune righe di un mio vecchio taccuino: Messico, Fiandre… Che meraviglia la (mia) vita!

Pochi giorni fa ho potuto finalmente assistere all’esecuzione dal vivo di una composizione per solo contrabbasso che mi ossessiona: Voyage that never ends, di Stefano Scodanibbio, suonata da Giacomo Piermatti, suo allievo e, fra le altre cose, membro dell’ensemble Ludus Gravis (è peraltro da poco uscita per Ecm una loro registrazione di Alisei proprio di Scodanibbio).

Granada, 31/3/1993. Il barista che, tossendo come un tubercolotico, non faceva che dire «me voy a morir, me voy a morir», fino a un, ridendo fragorosamente, «y vosotros también!».

Certo, essere ossessionati da una composizione per contrabbasso è qualcosa di bizzarro, di anomalo, forse di snob, soprattutto per qualcuno, come me, che non è musicista né critico musicale né esperto di musica contemporanea. Eppure, quella composizione mi ossessiona eccome. Ogni volta che faccio partire il cd nello stereo o lo streaming dal computer e nelle cuffie, sento tutto il significato di quell’aggettivo – «tellurico» – con cui Giacinto Scelsi descrisse quell’eruzione in quattro movimenti.

Cuernavaca. Quanto resisterò, io, con i muscoli che se ne vanno a vista d’occhio? Ieri sono di nuovo caduto. Le belle ore passate in giardino o a scrivere fanno da contraltare a quelle passate a letto contemplando scenari catastrofici. Ma i sogni, qualunque essi siano, sono la cosa più bella.

Stefano Scodanibbio era un contrabbassista e un compositore di Macerata, una delle figure più importanti della scena internazionale di musica contemporanea. È qualcuno di cui, giusto per fare un esempio fra i tanti, in un’intervista John Cage disse: «Stefano Scodanibbio è stupefacente. Non ho mai sentito nessuno suonare il contrabbasso come lui».

Quante fini del mondo annunciate. Dapprima annunciate, poi temute e infine quasi considerate inevitabili.

Scodanibbio morì nel 2012, a cinquantasei anni, a causa di una maledetta malattia degenerativa che lo tormentò per molti anni. «Letteratura + malattia = malattia», scriveva Roberto Bolaño.
Pollenza, 29/5/2010. Faccio sogni di movimenti che non posso più fare. Arrampicamenti, corse, salti, tuffi…

Proprio negli stessi giorni in cui sono riuscito finalmente ad ascoltare il Voyage that never ends suonato da Giacomo Piermatti, strabiliante, è arrivato in libreria per Quodilbet Non abbastanza per me. Scritti e taccuini, di Stefano Scodanibbio, a cura di Maresa Scodanibbio e Giorgio Agamben. Il volume è composto di tre parti, oltre all’introduzione di Agamben: alcuni testi che Scodanibbio ha scritto a proposito di altri compositori e del proprio percorso, poi la raccolta delle note alle sue composizioni, e infine la parte più corposa e interessante: i suoi taccuini, dal 1977 al 2011, con annotazioni e riflessioni scritte nelle località più disparate in tutto il mondo, lungo il suo voyage that never ends.

Raiten-Schleching, 15/8/1995. (La mia agenda è un romanzo).

A proposito del Voyage che non finisce mai. Scodanibbio cominciò a comporlo nel 1979, fino alla pubblicazione in cd nel 1997, per l’etichetta New Albion (lo si può ascoltare anche in Spotify). Lo considerava il suo «romanzo del contrabbasso». È un susseguirsi di pulsazioni ossessive («una corda vuota, una pulsazione ritmica regolare»), di suoni inaspettati da uno scatolo in legno qual è un contrabbasso, di possibilità ritmiche e timbriche inauditee, soprattutto, di un’intensità ossessiva che costeggia la trance. Il titolo è un omaggio al mancato ciclo romanzesco di Malcolm Lowry, The voyage that never ends, di cui Sotto il vulcano doveva essere il primo volume, mentre gli altri sono rimasti solo abbozzi incompiuti, prima che Lowry morisse prematuramente ucciso dallo stesso alcolismo del protagonista del suo romanzo, il console Geoffrey Firmin.

Vancouver, 5/11/2003. Il pellegrinaggio lowriano con quel tipo che mi portò alla foce del fiume dov’era la sua capanna, il traghetto per Gabriola, lo Skidrow, il negozio dove affittai il contrabbasso.

Il riferimento a Malcolm Lowry e a Sotto il vulcano è costante nei taccuini fin da inizio anni Ottanta: «sotto il segno di Malcolm». E Cuernavaca – la città dove si svolge la storia di Sotto il vulcano, all’ombra del vulcano Popocatépletl – è un luogo dove Scodanibbio torna praticamente ogni anno, fino alla scelta di trascorrere lì i suoi ultimi giorni.

D.F., 31/1/1998. Perché il Messico?, mi han chiesto in molti questi giorni. Oh, tra le tante ragioni… desprecio de la muerte, insulti mortali al congiuntivo, arte del bere con botanas che arrivano a tempo giusto…

Nel 1944, in una spiaggia della British Columbia canadese, la capanna dove Malcolm Lowry scriveva andò a fuoco. Riuscì a salvare solo il manoscritto di Sotto il vulcano, ancora inedito. Tutto il resto – gli altri manoscritti e tutto ciò che avrebbe dovuto comporre il ciclo The voyage that never ends – andò letteralmente in fumo. È un episodio che, involontariamente, risuona in questi taccuini che, per questa e molte altre ragioni, si fanno a loro volta, appunto, casse di risonanza di una vita inseparabile dall’arte assorbita ed espressa durante il suo corso.

Saarbrücken, 8/10/1998. Stamane, a Colonia, all’Hotel Mondial, di fronte alla Philharmonie, c’è stato l’incendio al terzo piano, il mio, e ho pensato solo a prendere il passaporto e salvare il contrabbasso, tra il fumo che mi soffocava e non mi faceva vedere la via d’uscita.

Fra aneddoti di questo tipo, storie dai concerti, considerazioni sulla musica sua e degli altri, racconti intimi e clinici del proprio vissuto della malattia, appunti di viaggio e tanto altro, da questi taccuini si capisce bene che la dimensione del viaggio, per Scodanibbio, era legata tanto alla sua professione – i viaggi per i concerti, per i seminari, per le registrazioni, e così via – quanto a una tendenza innata all’erranza, come se fermarsi nella propria esplorazione del mondo avrebbe voluto inevitabilmente dire fermarsi anche nella propria esplorazione artistica.

San Francisco, 23/8/2010. Adesso sono proprio solo, con la mia malattia e la mia follia. Senza Maresa ho paura di non farcela. Folle continuare a viaggiare in queste condizioni?

Ed era un’erranza durante la quale Scodanibbio e il suo contrabbasso non si separavano mai, come fossero una chiocciola e la sua conchiglia o una tartaruga e il suo carapace.

Pollenza, 6/1/2010. Mi sono sentito più un esploratore che un musicista (senz’altro più che un contrabbassista). Tra Sperimentazione e Manierismo. Ho viaggiato forsennatamente per perpetuare la giovinezza fin dove ho potuto (per procrastinare la morte). Ma non ho avuto la modalità (la fortuna? l’onore? il merito? l’eleganza?) di andarmene rapidamente oltre che precocemente – con un infarto, un ictus, un tumore veloce – come alcuni dei miei migliori amici. Non fate troppe domande, non siate troppo pettegoli, gli aneddoti andranno benissimo.

Ma la bellezza di questi taccuini – «Entiendo por utopía la belleza irrenunciable», scrive Maria Zambrano in Patzcuaro – sta proprio in questo: avanzando nella loro lettura non significa avanzare nel racconto di un vissuto personale di una malattia da parte di un musicista e compositore, ma significa segnarsi con sempre maggiore frenesia e voglia d’ascolto le composizioni citate, i musicisti, ma anche i luoghi che ci piacerebbe vedere, con un effetto di trasmissione di un romantico entusiasmo che sia la malattia sia la musica e i viaggi non fanno che sublimare.

Sant’Angelo d’Ischia, 28/9/2005. Fino a pochissimi anni fa cercavo di scrivere la musica che immaginavo, che avrei voluto ascoltare. Adesso faccio una musica che non avrei mai immaginato, trovata là quasi per caso, offerta, e lavorata poi. Desoggettivazione o estremo arbitrio?

E la densità emotiva di questi taccuini è tale da sconfessare quanto scritto a un certo punto dal loro autore: «I momenti migliori non si scrivono. Solo il disagio e il malessere necessitano di essere detti». Da una parte, è vero e comprensibile che, più la malattia avanza, più si leggono passaggi di questo tenore: «Una gran voglia di piangere, e di sparire (di morire?). Io, che mi vantavo di non sapere cosa fosse la depressione». Dall’altra parte, invece, in questi taccuini i momenti felici non mancano, momenti di grazia che rifulgono grazie alla luce che le annotazioni intime e minute di Scodanibbio gettano sul racconto del suo vissuto quotidiano.

Buenavista de Ixtapa, 26/8/2006. Poi calendari, diari, giornali, cataloghi, rosari… in questa casa sull’oceano tutta per noi dove ogni piccolo avvenimento acquista un significato enorme… una tempesta magnetica, una pioggia torrenziale, un ramarro enorme…

Anche un altro grande contrabbassista, Charles Mingus, morì a Cuernavaca. Dicono che, il giorno della sua morte, sulla spiaggia si spiaggiarono tante balene quanto il numero dei suoi anni.

Cueranavaca, 18/10/2010. Cuatro de la tardeimmerso nella bella luce del mio studiolo. Il tavolo cosparso di pagine e appunti per il nuovo pezzo per otto contrabbassi.

In Moby Dick, a un certo punto Herman Melville racconta di quando Queequeg, inarrivabile ramponiere proveniente dai mari del Sud, si costruisce e intarsia – trasfigurandovi i suoi tatuaggi – la propria bara.

Settembre 2008. Questa mattina, un crampo su un fa diesis a metà tastiera mi ha fatto interrompere la registrazione (e mi sono ricordato del sogno di ieri dove avevo voglia di piangere).

E proprio quella bara, al momento dell’affondamento del Pequod dopo la vana caccia alla Balena Bianca, sarà ciò che, galleggiando, permetterà al narratore Ishmael di aggrapparvisi e salvarsi.

Châtillon, 15/9/2002. È, a volte, il pensiero della morte o della malattia (e dunque della pura ipocondria) ad assalirmi… poi c’è il consuntivo di quello che ho fatto (che, en fin de compte, non è poi male, mentre quello che non ho fatto… che voragine… e di quello che ho dissipato in pura dépense… che oceano…).

Che allora ci venga concesso d’immaginare quella bara salvifica di Queequeg non come una cassa mortuaria, ma come la cassa – salvifica anch’essa, per Stefano Scodanibbio – di un contrabbasso.