Recensioni / Nelle poesie in dialetto lo spirito di Zanzotto

«Ad alcuni piace la poesia. Ad alcuni / cioè non a tutti. / E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. / Senza contare le scuole, dove è un obbligo, e i poeti stessi, /... La poesia / ma cos'è mai la poesia? / Più di una risposta incerta / è stata già data in proposito. / Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo / come alla salvezza di un corrimano».
Wislawa Szymborska, poetessa polacca morta alcuni anni fa, nel dubbio sembra non avere dubbi: la poesia, qualunque cosa sia, è un'ancora, un appiglio, il "corrimano" che salva chi sale o scende le scale, sia chi le poesie le scrive sia chi le legge.
Pensiamo a questo anche ora, nell'aprire uno dei tre libri freschi di stampa che l'editrice Quodlibet ha realizzato in occasione della Giornata mondiale della poesia, lo scorso 21 marzo. Ci riferiamo al volume di Andrea Zanzotto In nessuna lingua. In nessun luogo - Le poesie in dialetto 1938-2009, curato, come gli altri della collana (di cui fanno parte il testo su Pierpaolo Pasolini e Francesco Giusti), dal filosofo Giorgio Agamben. Perché è importante l'aver raccolto, dell'opera complessiva di Zanzotto, le poesie scritte in dialetto? Prendiamo a prestito, da «La Lettura» del «Corriere della Sera», alcune parole di risposta che lo stesso Agamben ha dato a Marzio Breda (giornalista e letterato) e che condividiamo: «La poesia italiana è nata con Dante sotto il segno del bilinguismo: il volgare, il "parlar materno", che apprendiamo da bambini senza alcuno studio, e la lingua che egli definisce secondaria o "grammatica", che apprendiamo attraverso una lunga disciplina».
Con questo libro dunque si mette al centro una possibile osmosi tra la poesia in italiano e la poesia in dialetto, con tutte le criticità e le crisi che ciò può provocare, dato anche il legame inscindibile che la lingua dialettale ha con il paesaggio umano e "naturale" - quello domestico che ispira i poeti - e con lo spaesamento che questo può procurare nel suo continuo trasformarsi.
Affermava Zanzotto, con bruciante sofferenza: «Ho visto deteriorarsi questo luogo (Pieve di Soligo e dintorni, ndr) fino a non riconoscerlo più, fino al suo sfarsi in un'altra fisicità, oltre che in un'altra situazione socio-antropologica, a livelli inimmaginabili». «Mi sono sentito letteralmente, e nei modi più sconcertanti, togliere la terra da sotto i piedi». Che ne sarà allora del dialetto che sgorga dal paesaggio e si identifica nel paesaggio fino a nutrirsene, se esso stesso si fa sempre più irriconoscibile? Rimarrà lì a mezz'aria, solamente nelle ultime parole parlate, incerto nell'incertezza delle cose che mutano giorno dopo giorno? E poi che ne è della poesia che ha potuto svelarsi attraverso il dialetto? E che ne sarà di quella che, premendo di uscire allo scoperto, pulserà comunque nelle vene dei poeti immersi nella storia e nel presente del loro paesaggio?
Questo libro può darci delle risposte. Dentro vi troveremo l'Andrea Zanzotto dei suoi capolavori: di Filò, de Il Galateo in Bosco, di Idioma, di Meteo, di Sovrimpressioni, di Conglomerati. Stefano Dal Bianco, che ha stilato la prefazione e dato struttura al testo, riconosce la difficoltà incontrata nell'operazione di selezione e di raccolta, perché ogni libro di Zanzotto - scrive - «è un organismo delicato, con un'architettura ferrea».
Noi lettori siamo convinti, al di là di tutto, che lo spirito del poeta e della sua poesia potrà offrirci ancora una volta, con questa pubblicazione, un motivo per dar fiato alle emozioni e per ripensare al senso dei suoi interrogativi, dei suoi insegnamenti.

Recensioni correlate