Nel
1941, nella
testamentaria
Novella
degli
scacchi, Stefan Zweig era stato
meno
prosaico,
ma
non meno realista. Prigioniero della Gestapo, il protagonista del racconto sfida sé stesso muovendo minuscoli
frammenti
di
carta
su una scacchiera intravista fra le pieghe della coperta ai piedi del letto. Tre anni più tardi nel carcere nazista allestito a Oslo, al numero di 19 di Møllergata, i detenuti giocavano di nascosto conle carte ricavate dai fogli distribuiti per la latrina. In assenza di inchiostro, i segni erano tracciati con il creosoto, un derivato del catrame che all’epoca veniva impiegato come disinfettante. Su quegli stessi fogli, larghi e spessi, uno dei reclusi redigeva pazientemente
il
suo
diario.
Niente penna, anche in questo caso. Lo strumento utilizzato era un ferretto
sottratto
alle
tende
d’oscuramento,
molto
efficace
nell’incidere
le
parole
sulla
superficie
scura
della
carta
igienica. Quell’uomo si chiamava Petter Moen, era stato arrestato insieme con la moglie Bergliot il 3 febbraio 1944, poco giorni prima di compiere 43 anni. Matematico di formazione, lavorava come attuarlo ed era stato incriminato per la posizione che rivestiva
nella
stampa
clandestina
norvegese.
Il
metodo escogitato pereseguire
e
conservare i propri scritti rivela una mentalità molto
pratica,
molto razionale. Moen raggruppava
cinque foglietti, li avvolgeva in un sesto, dopo di che faceva cadere quella specie di sigaretta nel condotto di aerazione della cella. In questo
modo,
non
solo
il
diario, ma anche appunti, calcoli e preghiere finirono nel nascondiglio, dove vennero ritrovati a guerra finita su indicazione di un compagno a conoscenza del segreto. Moen era morto l’8 settembre
1944, nell'affondamento
della nave che lo stava deportando in Germania. Bergliot - che nel diario viene sempre chiamata con
l'affettuoso
soprannome
di Bella
-
sopravvisse
invece
al campo
di
concentramento
di Grini, nella quale era stata internata
subito
dopo
l'arresto.
Pubblicato in Norvegia già nel 1949, il Dagbok di Moen è da tempo considerato uno dei documenti
più
importanti
nella
testimonianza
della
persecuzione.
Nel
suo
Trattato
del
ribelle Ernst Jünger si spinge a indicare
nell’autore
«il
discendente spirituale di Kierkegaard», rappresentante
di
una
letteratura che
si
dimostra
tanto
più
potente quanto meno è mossa da intenti
esclusivamente
letterari.
Un’affermazionealla
quale
finora
il lettore
italiano
di Jünger era costretto a prestare fede senza poter effettuare una verifica diretta. Adesso finalmente il «diario
dal
carcere» di Moen viene proposto nel nostro Paese da Quodlibet con il titolo Møllergata
19
(traduzione
di
Bruno Berni, pagine 208, euro 18,00) equel giudizio non può che essere confermato. Anzi, la costellazione
nella
quale
la
confessione di Moen si inserisce è ancora più vasta e complessa, come giustamente fa notare il curatore del volume, Maurizio Guerri, nell’importante
saggio che accompagna
la
versione
italiana del
diario.
Il periodo di detenzione di Moen coincide, tra l’altro, con quello che
Dietrich
Bonhoeffer
trascorre nel carcere di Tegel e non mancano i punti di contatto tra la dolorosa riflessione del norvegese e gli scritti poi confluiti in Resistenza e resa. In entrambi i casi, il prigioniero vive la propria condizione nei termini di una
prova
spirituale,
evitando però
di confondere l’esperienza religiosa con un conforto a buon mercato.
Moen, in particolare, è molto severo
nel
respingere
la
tentazione di un abbandono meramente emotivo. Non dispone della profondità
teologica
di
Bonhoeffer, ma è una persona di buone letture, capace di citare a memoria dalle opere di Goethe e di Shakespeare.
Amleto, nella
fattispecie, è il personaggio nel quale
maggiormente
si
riconosce, non fosse altro per la dimensione metafisica che il dubbio assume nella sua vicenda.
Quella di Moen è una drammatica storia europea ed è, nello stesso tempo, una storia emblematica della Norvegia al tempo della
resistenza.
Nonostante
il colpo di Stato messo a segno nell’aprile
del
1940
dal
governo fantoccio
di
Vidkun
Quisling, l’occupazione nazista del Paese fu duramente contrastata dall’opinione
pubblica
e
dallo
stesso re Haakon VII, il cui monogramma divenne presto uno dei simboli
di
un’insurrezione
che, come ricorda Guerri, si mosse lungo due direttrici. All’azione militare
dei
partigiani
si
affiancarono infatti le iniziative della società civile, con modalità ed esiti
anche
clamorosi:
gli
insegnanti
norvegesi,
per
esempio, si rifiutarono di applicare i programmi
filonazisti
promossi
dall’esecutivo di Quisling, che da ultimo fu costretto a riconoscere una sostanziale libertà di coscienza. Fondamentale, in questo contesto, il ruolo svolto dai numerosi
giornali
clandestini, molti
dei
quali
attingevano
il nmateriale
dalle
trasmissioni
della Bbc, altrimenti captate in Norvegia solo da pochi ascoltatori. Al momento dell'arresto Moen era tra i responsabili di una delle testate più diffuse, «London-Nytt», che esplicitamente si richiamava al bollettino di Radio Londra. Nelle pagine del diario,
questo
incarico
è
fonte di continui ripensamenti e rimorsi. Moen è convinto di aver preteso
troppo
dalle
proprie forze, mettendosi così in una situazione dannosa per gli altri oltre che per lui stesso. Il primo dei suoi appunti, datato 10 febbraio
1944,
sembra
non
lasciare scampo: «Mi hanno fatto due interrogatori.
Mi
hanno
frustato. Ho tradito Vic. Sono debole. Merito disprezzo. Ho una terribile paura del dolore. Ma non ho paura di morire». Come nella Novella di Zweig, i pezzi sono già disposti sulla scacchiera. Pur
desiderando
che
il
diario giunga un giorno a essere divulgato, Moen non dissimula la debolezza
e
lo
smarrimento («Non
sono
coraggioso.
Non
sono
un
eroe.
Non
posso
farci niente»), ma d'altro canto è meticoloso
nel
descrivere
le
tappe della sua
contraddittoria esplorazione
interiore.
«Ci vorrebbe un prodigio psicologico per portarmi a ciò che desidero - alla salute e all’armonia dell’anima e del corpo. Spero in un aiuto di Dio. È la mia ultima possibilità di “salvezza” in ogni senso», scrive in data 2 marzo. Qualche mese più tardi, il 27 luglio,
il
dissidio
tra
l’«Io
bisognoso» e l’«Io intellettuale» pare essersi risolto a favore di quest’ultimo,
attraverso
un
estremo
tentativo
di
«razionalizzazione»
che però non arriva liquidare definitivamente il «logoro problema» dell’esistenza e della natura di Dio. In precedenza, Moen è perfino arrivato a registrare in forma
poetica
una
visione
della
«testa
di
Cristo»
riflessa
«sulla
parete della cella»: «La via della salvezza mostrami clemente / dal peccato, dalla morte e dall’ansietà!».
La speranza che il «salto mortale»
si
trasformi
in
«salto
vitale» non viene mai cancellata del tutto, neppure quando Moen deve vedersela con la meschinità dei carcerieri e degli stessi compagni di prigionia, tra i quali spicca la figura quasi animalesca di un marinaio ubriacone e sensuale.
Ma
ancora
pochi
giorni prima del fatale trasferimento, si domanda: «Non voglio vivere? Ah! Ah! Dio! Certo - io voglio vivere! Che il sole spenda di nuovo
su
una
strada
dove
posso camminare
a
braccetto
con
il mio amore... Abbasso gli occhi di
fronte
al
mio destino. Nascondo di nuovo il mio vero volto - parlo di nuovo con lingua falsa - vivo e voglio vivere».