Recensioni / Del parlare in lingue

La lingua conduce una doppia vita. Se da un lato essa si conforma alle consuetudini “borghesi”, che la vogliono subordinata alle esigenze della comunicazione convenzionale, dall’altro se ne sta rincantucciata negli anfratti più riposti ed oscuri, quale ribaldo scherano. Quest’ultima «è quella lingua – scriveva nel 1634 Niccolò Villani nel Ragionamento dell’accademico Aldeano sopra la poesia giocosa – che malavventurosamente dalle persone che la frequentano è chiamata furbesca». E che pur assumendo, a seconda dei Paesi, nomi diversi – gergo, argot, rotwelsch, cant, slang – ha caratteristiche quasi sempre identiche: la deformazione fonetica intenzionale per metatesi o per epentesi, l’assimilazione di vocaboli stranieri, l’utilizzo di una congerie di figure epigrammatiche e anafonie, siccome di motti confetti, talora osceni e bizzarri, tal’altra eco di geroglifici sonori e di primitive formule idiomatiche.
Si tratta – notava Graziadio Isaia Ascoli nelle sue Memorie sulle lingue furbesche (in Studi critici, vol. 1, Gorizia 1861) – di una «furtiva creazione dell’intelligenza umana, intorno alla quale troviamo assidui, con intenti diversi, i Militi della Scienza e le Autorità di Pubblica Sicurezza». Spinti dal medesimo intento di rischiararne le ambiguità, sono infatti stati i tutori dell’ordine non meno dei linguisti ad interrogarsi sui peculiari idiomi parlati dai malfattori. Come ricorda Daniel Heller-Roazen nel suo Lingue oscure. L’arte dei furfanti e dei poeti, apparso nel 2013 presso Zone Books e ora tradotto da Quodlibet, fu non a caso Thomas Harman, un magistrato inglese che nel 1567 diede alle stampe il Caveat or Warning for Common Cursitors, l’apripista di un’amplissima messe di studi e ricerche sul gergo criminale: cui hanno dato decisivi contributi, fra gli altri, Jean Rabustel, Marcel Schwob, Eugène-François Vidocq e, nel Novecento, David W. Maurer, autore di The Big Con, fondamentale contributo alla comprensione del «rhyming slang» americano.
Come osservava Alfredo Giuliani recensendo, nel dicembre 1991, l’edizione ampliata e riveduta del mondadoriano Dizionario storico dei gerghi italiani, dal Quattrocento a oggi di Ernesto Ferrero, «anche la poesia, guardata dal basso è un gergo malandrino, una morascàda, un taroccare sui muri davanti a sant’Alto». Proprio il nome di sant’Alto – designazione notissima di “Dio” nel parlare furbesco – figura nel poema eroicomico di Lorenzo Lippi, Malmantile (II, 5), decretando alla fine del Seicento l’intrusione di parole furbesche nelle nostre scritture letterarie, già peraltro attestata due secoli prima – ricordava Rodolfo Renier nei Cenni sull’uso dell’antico gergo furbesco nella letteratura italiana (1903) – nel canto XVIII del Morgante: a dimostrazione di come la parlata dei delinquenti avesse fin da allora dignità pari all’artificio letterario e non meno di questo possa perciò perturbare e scompigliare le leggi del linguaggio quotidiano. Heller-Roazen sostiene al riguardo che come il linguaggio poetico – secondo quanto suggerito da Viktor Šklovskij all’inizio di Una teoria della prosa – in forza della struttura fonica, del patrimonio lessicale, della tecnica rappresentativa e delle costruzioni semantiche, tende a liberare dall’automatismo della convenzione il rapporto fra le parole e le cose, così i cants dei ladri, con la loro sorprendente stranezza, compiono un’effrazione nell’ordine del discorso e ne sovvertono i significati, compiacendosi di crearne di sempre nuovi e misteriosi.
Tuttavia, anche avendo scelto di adottare una prassi ermeneutica – collaudata già in Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (Quodlibet 2007) – che ritiene di valersi di un metodo inseparabile dai “contesti” che si propone di sviluppare, fino al punto da rendere quasi indistinguibile il confine fra l’interpretato e l’interprete, Lingue oscure può dare l’impressione – secondo Jacob Mikanowski (The Tongues of Rogues. How secret languages develop in closed societies) – che la prossimità fra gerghi criminali e poesia vi resti allo stadio di premessa, non bastando a confermarla la sola meticolosa analisi delle ricerche condotte da Tristan Tzara sugli anagrammi nascosti nei versi di Villon.
Ciò nondimeno la straripante erudizione che trapunta ogni pagina del comparatista di Princeton, più che volersi soffermare sulle analogie fra la lingua dei malviventi e la «subliminale trama verbale della poesia», mirerebbe – nello spigolare fra i nomina divina (pur tacendo il nome di Herman Usener), gli indovinelli che costellano l’Edda e gli altri carmi norreni, le anafonie del saturnio su cui si lambiccò Saussure, la funzione del linguaggio poetico messa a tema da Jakobson e le mirabolanti creazioni dadaiste – a dar prova di un altro gergo. Se infatti perché si abbia un prodotto veramente gergale è sufficiente avere – notava Giulio Bertoni – una «lingua convenzionale parlata da certe classi di persone con l’intenzione di non farsi comprendere da altri», si mostra evidente come l’alessandrinismo di Heller-Roazen tenda a costituirsi come l’archetipo di una lingua gergale che usa la disorganizzazione come principio di organizzazione. Ma il suo non è un «gergo dell’autenticità» che, sotto uno spesso strato di concetti e di idee, faccia scomparire la mediazione del pensiero.
All’opposto la sua scrittura – che a tratti potrebbe ricordare quella di Robert Eisler, per l’incredibile sfoggio di citazioni, la robusta documentazione, le formidabili note – non indietreggia a cospetto della “biforcazione” che per natura o per scelta attraversa la lingua (e che rende inefficace la definizione aristotelica, tutt’ora invalsa presso i linguisti, di “frase” come sequenza di parole delle quali si può dire se ciò che descrivono è vero o falso), introducendo l’elemento della fantasia e dell’immaginazione di ciò che non esiste; ma soprattutto essa non manca di quel particolare rigore che dev’essere raggiunto anche a prezzo di un discorso illeggibile.
«Per un po’ mi sento meno inquieto quando, dopo aver girato a lungo tutt’intorno alle parole, averle scavate e triturate, aver esplorato le loro risonanze semantiche e analizzato i loro poteri allusivi, la loro potenza d’evocazione, mi rendo conto che decisamente non posso andare oltre» – ha affermato Vladimir Jankélévitch in Da qualche parte nell’incompiuto (Einaudi 2012). Nella ricerca delle lingue oscure attingere ad un discorso coeso, senza cricche e senza falle, sarebbe una contradictio in adiecto. Esse infatti svaniscono nell’istante stesso in cui appaiono, come un evento irripetibile, come un ingannevole bagliore nella notte. «Prima della comparsa del crimine moderno […] le divinità esigevano che un segreto fosse mantenuto e rivelato, occultato ad alcuni e al contempo trasmesso fra i membri di un unico gruppo […]. I sacerdoti e i loro aiutanti – poeti e scribi – le assecondarono».