L’italiano è stato per secoli una lingua divisa in stanze magari comunicanti ma distinte: la lingua della prosa
e quella della poesia; la lingua scritta
e quella parlata (una sorta di veranda
aperta nell'architettura complessiva);
l'italiano letterario e i dialetti.
Nell'ultimo secolo esso va somigliando
sempre più a un unico ambiente,
più grande e arioso, ma sempre
meno conscio delle frontiere che
proteggevano antiche distinzioni.
Così, la lingua letteraria tende a confondersi
via via con quella scritta di
tutti i giorni, e il parlato e lo scritto
s'avvicinano sempre di più, asintoticamente.
Contro questa tendenza -
che egli scòrse e tentò di descrivere
prima di altri - Pier Paolo Pasolini
ingaggiò una lotta nelle sue opere,
praticando tra l'altro un plurilinguismo
intenzionale ed esibito, e tentando
di porre un argine a quella lingua
comune sì, ma un po' insipida e
culturalmente pericolosa che egli
chiamava italiano tecnologico, «tipico
e necessario del capitalismo
tecnocratico». Un italiano al quale
egli guardava più con preoccupazione
che con speranza.
Un capitolo cruciale dell'esperienza
linguistica pasoliniana è l'attraversamento
del friulano, lingua
materna riscoperta durante la gioventù
- dopo un'infanzia itinerante
- e in particolare negli anni della
guerra, che Pasolini trascorse con la
madre a Casarsa. Giusto a Casarsa,
Pasolini dà vita con un gruppo
d'amici a una Academiuta di lenga
furlana (quasi “accademietta”), che
nel friulano cerca una dimensione
tipica della poesia dialettale italiana
del Novecento. È la ricerca d'una lingua
in cui si possa ancora esprimere,
con le sue parole, una «rustica e cristiana
purezza», una «lingua antichissima
eppure del tutto vergine»,
sottratta ai compromessi e agl'intorbidamenti
della storia, e perciò disponibile
a un vero esercizio poetico.
In friulano, iniziandolo nel i944,
Pasolini compone un atto unico teatrale,
I Turcs tal Friùl, in cui è messa
in scena la vicenda della discesa dei
Turchi in territorio friulano nel v499,
con le contrastanti reazioni - terrore,
disperazione, ribellione - che ad
essa oppone la comunità rurale di
Casarsa: le donne, i vecchi, i giovani
del paese. Tra i personaggi spicca un
terzetto di protagonisti, due fratelli
e la loro madre, nei quali è facile intravvedere
un'allusione deformata
alle vicende familiari dello stesso
Pier Paolo, e del fratello Guido, entrato
in quegli stessi mesi nella clandestinità
partigiana: nel 1945 verrà
ucciso da altri partigiani assieme ai
membri della Brigata Osoppo, in
uno degli episodi più cupi della resistenza
italiana. La morte del giovane
Meni Colùs appare nella pièce pasoliniana
come una sinistra prefigurazione
di quel destino reale, e le guerre
del passato stingono qui su quelle
del presente, grazie anche all'immaginata,
perfetta identità tra la lingua
di ieri e quella di oggi, sospesa in un
orizzonte senza tempo.
Il testo di Turcs tal Friùl rimase
inedito per decenni, e fu riscoperto,
pubblicato e messo in scena solo dopo
la morte di Pasolini, nel i976, ma
da allora generalmente riconosciuto
come il miglior prodotto del versante
friulano della sua produzione.
Scritta in una prosa sognante e concitata,
in cui la lingua ha una chiara
funzione di straniamento surreale,
la pièce - già ben edita da Walter Siti
nei Meridiani pasoliniani - viene
ora riproposta in una nuova collana
di Quodlibet con un corredo insolito:
un'introduzione di Giorgio
Agamben, che si giova di una conoscenza
profonda e avvertita di Pasolini;
una traduzione letterale, a piè di
pagina, di Graziella Chiarcossi; e
un'efficace traduzione a fronte «in
versi» (ma liberi ed eslegi: insomma
una sorta di riscrittura italiana che
ripropone la tensione lirica dell'originale)
di Ivan Crico, ingegnoso poeta
goriziano, che di solito scrive in
bisiac, parlata veneta del Friuli. È
una combinazione insolita, capace
di parlare anche al lettore italofono
di questo secolo, ormai dimentico
della guerra lontana e dell'Italia
contadina e dialettale: «La me vera
a è brusada e dirocada e sporgada di
sanc. I me fradis a morin, cà intor, cà
visìn: e a mi a mi par di morì cun
Tour» («Bruciata è la mia terra / tutta
in rovina e sporca di sangue. / I miei
fratelli ora muoiono, qui / attorno,
qui vicino: e insieme / a tutti loro mi
sembra di morire»).