Uno spettro si aggira per la Penisola. È il sempre disprezzato
ma invitto dialetto che, mille volte dato per
morto e in effetti sparito dalle strade delle più moderne
città sotto una coltre di pudicizia linguistica,
ha ripreso a frequentare le librerie. Proprio mentre
qualche doloroso compianto si leva per lo stato della
lingua italiana - ridotta alle trecento parole dell’uso
medio - si rinvigorisce infatti la circolazione del volgare
idioma. Non solo le serie tivù lo ostentano per
cercarvi un qualche genius loci più credibile dell’astrattezza
dei loro caratteri, ma anche la rinsecchita
lingua editoriale torna a chinarsi sul dialetto, e proprio
nel campo principe della tradizione linguistica
italiana, la poesia. Che la salvezza dell’italiano debba
venire dall’impresentabile fratello? Sembrerebbe.
La storia linguistica italiana è tutta un’avventura,
si sa, ma salteremo direttamente al Risorgimento,
momento in cui Manzoni si accorse di avere un
problema. Quando sembrò che le truppe piemontesi
stessero per varcare il Ticino, preso da affiato eroico
Don Lisander scrisse infatti in Marzo 1821 che l’Italia
era «Una d'arme, di lingua, d'altare, / Di memorie,
di sangue e di cor», esprimendo nelle forme dell’alta
oratoria epica più un auspicio che una realtà; e infatti
solo un mese più tardi, quando gli balenò l'impresa
di importare il romanzo, dovette sperimentare che la
Penisola non era affatto una di lingua. «Qui giace la
lepre», cioè casca l'asino, dovette confessare a se stesso
il Manzoni, insieme al fatto che la prima stesura
del Fermo e Lucia fosse più debitrice al lombardo che
all’italiano. Seguiranno la Ventisettana e la Quarantana,
le risciacquature nell’Arno e, insomma, tutti quei
luoghi obbligati dell’italianità per i quali ci affidiamo
alle reminiscenze scolastiche del lettore. Interessa sottolineare,
però, come l’italiano ampio e ironico cui il
Manzoni arrivò con un lavorio maniacale, venne fuori
da una tensione continua col sostrato regionale e l’uso
linguistico della borghesia, che nella mente di Don
Lisander coincideva pressappoco col Popolo: gli altri,
quelli in basso, erano ottentotti balbuzienti.
Nello stesso periodo in cui Manzoni immaginava
linguisticamente un certo tipo di italianità, un romano,
Giuseppe Gioachino Belli, affrescava una commedia molto più umana di quella toccata in sorte a Renzo
e Lucia; e lo faceva aderendo alla lingua di un popolo
diverso da quello manzoniano, riproducendo il barbarico
idioma della plebe, romana nella fattispecie.
Più volte definito il Gogol’ o il Balzac italiano, oggi
si può misurarne tutto il valore con i quattro tomi dei
suoi Sonetti, di fresco usciti in edizione critica grazie
a Pietro Gibellini, Lucio Felici e Edoardo Ripari. Si
tratta di un monumento composto di 2.279 poesie,
per 32.208 versi complessivi di fronte ai quali impallidiscono
anche i 14.233 endecasillabi della Divina
Commedia. E chi pensi che il Comynedione di Belli sia
incomparabile con l'elevatezza del Dante ultraterreno
o con l'avventura di religiosa
sopportazione dei
due popolani manzoniani,
dovrebbe rileggere come
nel parlato del Belli risuonino
senza dissimulazioni
ideologiche alcune altissime
verità sociali («Cristo
creò le case e li palazzi /
P'er prencipe, er marchese
e ’r cavajjere, / E la terra
pe nnoi facce de cazzi») e
ontologiche («Poi vié ll'arte,
er diggiuno, la fatica,/
la piggione, le carcere, er
governo, / lo speciale, li
debbiti, la fica, // er zol
distate, la neve d’inverno... / E pper urtimo, Iddio sce
bbenedica, / vié la Morte, e ffinissce co l’inferno»).
L'oralità è una qualità peculiare della poesia in
dialetto che Belli aveva orecchiato nelle poesie di Carlo
Porta, nel milanese del quale sentiva una certa vibrazione
di toni tra la pronuncia sbracata dei popolani
e la sostenutezza a cul de poule degli altolocati. Di qui
la teatralità di Porta - e dei dialettali in genere - che
presuppone però che i versi vengano letti ad alta voce
e con gestualità da attore. Ma oggi a Milano si trovano
sempre più di rado lettori in grado di interpretare il
meneghino, e ciò rende ancora più meritoria la recente
opera mediatrice di Patrizia Valduga, che ha voluto
cimentarsi col Porta per restituircene qualche prova
in italiano.
Da quando il Rinascimento decretò l’illustre elevatezza
del monolinguismo petrarchesco, il dialetto fu
rimosso insieme aí suoi parlanti, ma anche chi oggi lo
ritiene un passato da pezzenti deve sapere che nella realtà
le cose andarono altrimenti. Secondo l’agiografica
tradizione risorgimentale, quando Vittorio Emanuele
II entrò a Roma, pronunciò con solenne eloquenza un
«Ci siamo e ci resteremo»; ma molto più verisimilmente,
proferì un più prosaico «Finalment i suina!», finalmente
ci siamo; proposizione piemontese che conserva
nella sua fresca oralità la fatica di un lungo viaggio, la
realtà di un'impresa tutt'altro che omerica, più umana
che letteraria. Del resto tutti quei piemontesi che fecero
l’Italia non si trovavano proprio a loro agio coll’italiano:
Cavour con l’idioma italico era parecchio impacciato.
Ma a dispetto della realtà, il Re deve apparire
tale, parlare cioè come un Agamennone.
Va da sé che il Fascismo con tale lingua fanfarona
non poté che andare a nozze, nascondendo sotto
il mito romano dannunziano le diseguaglianze reali,
sociali e linguistiche. Il dialetto, represso da Roma,
fu allora una risorsa per molti poeti del Novecento
tra i più grandi, da Delio Tessa a Giacomo Noventa,
da Virgilio Giotti fino al Pier Paolo Pasolini dell’Academiuta
di lenga furlana. E proprio a quest’ultimo,
con I Turcs tal Friùl, è dedicata una delle prime tre
pubblicazioni di Ardilut, la nuova collana di poesia in
dialetto diretta da Giorgio Agamben per Quodlibet,
editore che ha riproposto anche una deliziosa scelta
del Beckett romagnolo Raffaello Baldini. Questa collana
intende indagare íl rapporto di tensione tra lingua
naturale e artificiale che già Dante aveva colto nel
De volgari eloquentia - e infatti se il friulano di Pasolini
sia lingua o dialetto qui non rileva: è comunque
idioma altro, come il ladino di Nauz, opera poetica di
Roberta Dapunt.
Il bilinguismo italiano è stato il motore della vitalità
di una tradizione letteraria che ha nutrito l'artificialità
della scrittura con la naturalezza dell'oralità
e viceversa, dotando così gli italiani di vivi strumenti
linguistici. Questo incrocio proficuo è evidente nella
ricerca dei poeti che scrivono sia in lingua sia in
vernacolo; in Andrea Zanzotto, In nessuna lingua in
nessun luogo, e nel contemporaneo Francesco Giusti,
Quando le ombre si staccano dal muro, i quali hanno
colto nel dialetto uno strumento per rivitalizzare non
più la morta lingua del potere regio o fascista, ma lo
stato comatoso dell’italiano capitalistico, sempre più
funzionale al mercato e alla sua democrazia, ma inservibile
al discorso critico e poetico o all’espressione
individuale - che infatti può consistere solo nell’alternativa
tra approvazione o disapprovazione, adesione o
rifiuto, like o non like.