Recensioni / Quando il pranzo diventò la cena

Alessandro Manzoni era solito pranzare alle 17, Napoleone Bonaparte addirittura un’ora dopo (e d’estate anche più tardi). Carlo Goldoni a Parigi incentrava la sua giornata su un unico vero pasto dopo la passeggiata delle 14, così come il filosofo Immanuel Kant, che iniziava il pranzo alle 13 e, se c’erano ospiti, restava a tavola fino alle 16 o 17. Più che un problema nutrizionale, gli orari dei pasti nel corso della storia sono classificabili, per dirla come Alessandro Barbero in A che ora si mangia? (Quodlibet), come «una costruzione culturale» che cambia «non solo da un Paese all’altro, ma da una classe sociale all’altra e anche da un’epoca all’altra». Così, per esempio, gli aristocratici inglesi tendevano a pranzare sempre più tardi perché tardi si alzavano, mentre in Francia, ma anche a Milano, questo era dovuto a esigenze di efficacia e produttività: dopo pranzo non si lavorava più. A Parigi con la Rivoluzione era, infatti, stato introdotto un orario unico per gli impiegati dalle 9 alle 16, a cui si era adeguata tutta la popolazione. Lo storico e scrittore nel suo saggio ricostruisce a partire dall’ultimo scorcio del ’700 lo spostarsi sempre più in avanti degli orari di colazione, pranzo e cena - tanto che quest’ultima a un certo punto scomparirà - fino al compiere un giro d’orologio completo e, quindi, a tornare al punto di partenza. Tra le conseguenza, per esempio, il fatto che i vocaboli dîner (francese) e dinner (inglese), inizialmente usati per indicare il pasto del mezzogiorno, sono passati a significare quello della sera: solo in Italia è stato ripristinato l’antico nome di pranzo.

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