Recensioni / Progetto e metropoli

Sono solita avvicinarmi ai testi di filosofia politica e di teoria dell’architettura con una certa diffidenza, con la paura di ritrovarmi senza luoghi, avvenimenti, storie di donne e di uomini ai quali ancorare i ragionamenti che leggo; di rimpiangere i terreni e i casi studio degli storici e antropologi, a me più vicini. Nel leggere Progetto e metropoli di Marco Assennato, questa diffidenza ha lasciato rapidamente spazio alla curiosità di seguire l’autore in un viaggio tra i testi, seguendo un ragionamento che procede per dimostrazioni logiche successive e ci interroga sulle nostre pratiche professionali e militanti. Sulle nostre vite. Malgrado qualche passaggio che a un lettore non specialista può apparire riservato agli addetti ai lavori, il libro di Assennato ci pone di fronte a delle questioni che – dopo essere state svelate e esplicitate dall’autore – appaiono imprescindibili.
Come il sottotitolo ci anticipa, Progetto e metropoli è un saggio su operaismo e architettura. Già dalle prime pagine, però, si capisce che all’autore non basta riflettere sulle applicazioni operaiste nelle pratiche architettoniche o su intrecci biografici dei protagonisti. Non solo operaismo e architettura sono termini ai quali avvicinarsi rispettivamente con cautela e con coraggio. In un percorso ben più ampio, attraversare territori comuni tra i due campi discorsivi (la filosofia politica e l’architettura) e riflettere al rapporto tra ideologie, tecniche operative, arte, ruoli e funzioni del lavoro intellettuale, permettono all’autore di interrogare lo spazio metropolitano contemporaneo e il progetto: strumento principale della riflessione e della pratica architettonica.
In questo percorso tra operaismo e architettura, i testi di Manfredo Tafuri, pubblicati tra la fine degli anni Sessanta e Settanta sono tanto centrali, quanto – secondo Assennato – largamente incompresi. L’autore ci propone una nuova e convincente lettura degli scritti dell’architetto, iscrivendosi all’interno del contesto intellettuale e politico in cui sono stati prodotti e rintracciando e ripercorrendo i legami e le reazioni che si sono sviluppate nel dibattito di quegli anni e nel tempo. Ma perché Tafuri, così interno al suo tempo, non è stato compreso? C’è forse qualcuno al quale il mito, secondo il quale l’architetto considerasse impossibile una pratica architettonica in una società a capitalismo avanzato, sia tornato utile? Senza cadere in facili dietrologie complottiste, ma analizzando le ragioni storiche di alcune interpretazioni e scelte, Assennato s’interroga sugli strumenti critici, allora proposti dalla relazione tra operaismo e architettura e a lungo rimasti nell’ombra.
Nel farlo, l’autore non si lascia tentare da nessuna via di uscita che sposti la questione, senza comprenderne la profondità dei temi in essa posti. Così, la risposta non può essere nella pianificazione, né nella nostalgia verso il piano: baluardo del potere pubblico, contro il caos. Il sistema anticiclico in cui viviamo «necessita invece di una figura intellettuale capace di decostruire la rigidità della pianificazione». Non può essere neppure nella libertà creativa, per non riconoscere l’architettura come pratica e tecnica politica e «coronare poeti» gli studenti che escono dalle Facoltà di architettura e ai quali si propone di non entrare in collisione con l’organizzazione concreta della produzione. Assennato non risparmia neppure i «paradisi artificiali dell’utopia e della speranza». Comunità locali, microcredito e monete alternative, partecipazione civica o «antimodernismo d’accatto» sono «strategie perfettamente integrabili nel governo capitalistico della metropoli».
La questione per l’autore ruota attorno ai due termini che danno il titolo al libro. La metropoli contemporanea, quel territorio investito dalle politiche neoliberali che ha rotto le regolarità, le serialità, la normatività e l’omogeneità della metropoli industriale. Il progetto, che sembra troppo spesso rinunciare alla sua dimensione concreta, economico-politica e quindi profondamente conflittuale. Ma non solo. L’architettura è prima di tutto un sapere tecnico, una dimensione che è poco rivendicata dagli stessi architetti, per ricercare un sapere popolare non meglio identificato e, in quanto tale, politicamente corretto. Se poco compresa, e in parte dimenticata, è la forma di critica proposta dall’operaismo e dalla stagione di lotte che ha accompagnato la modernizzazione italiana tra anni Sessanta e Settanta, un’architettura di classe (e che in altri anni avremmo definito operaista) sembra imporsi come l’alternativa a una certa critica del progetto, che di fatto rinuncia al conflitto. Sembra tornato il tempo, quindi, per gli architetti (e non solo) di mettere scienza, tecnica, sapere e cultura in un progetto capace di praticare conflitti e prefigurare nuovi strumenti critici per il nostro tempo.