Recensioni / Un radicale recupero di Lacan nel segno politico dell'indistinzione. Milner e i desideranti

Il filosofo francese Jean-Claude Milner riconfigura nell'attualità il conflitto anni sessanta tra «significati» - attributi del potere - e Lacan, diceva Foucault, è stato il liberatore della psicanalisi. Volendo «essere semplicemente psicanalista, egli ha dovuto intraprendere una violenta rottura con la psichiatria e la psicologia, ha dovuto sottrarre la psicanalisi al dominio delle istituzioni mediche, opponendo alla normalizzazione dei comportamenti una nuova teoria dei soggetti. Proprio in questo senso che unisce fedeltà e gesto di rottura Jean-Claude Milner può essere considerato il liberatore, nell'orizzonte lacaniano, di una nuova concezione dei corpi, delle soggettività e del linguaggio. Dotato di uno stile personale quanto rigoroso, filosofo politico allievo di Althusser, linguista a lungo vicino a Chomsky, Milner è uno dei maggiori pensatori contemporanei. Molto noto e pubblicato in Francia, da noi resta (strano mistero editoriale) quasi del tutto sconosciuto. Anche per questo, va felicemente salutata la traduzione del suo libro decisivo, I nomi indistinti (a cura e con una bella Introduzione di Barbara Chitussi, Quodlibet, pp. 123, 15, 00), sperando che a questa versione ne seguano presto altre, innanzitutto di Constat, dedicato all'idea di rivoluzione, al suo aver luogo e alla sua fine, o di Le triple du plaisir, una meditazione svolta al fianco di Foucault e Pasolini sui corpi come ricettori e diffusori di materia-linguaggio, oppure dell'ultimo, ed esemplare, Le pas philosophique de Roland Barthes. Poiché ne I nomi indistinti, in questo breve, denso e a volte arduo trattato, tutti i volumi successivi ritrovano il loro punto focale, come fossero sviluppi necessari di una materia ancora coesa e incandescente, o come se queste pagine (uscite inizialmente nella collana fondata da Lacan «Connexions du Champ freudien») contenessero non un teorema definito, ma la formula esatta di una concatenazione possibile. Se il primo capitolo «R,S,I» riprende sin dal titolo il seminario di Lacan del 1974-75, la relazione complessa tra Reale, Simbolico e Immaginario dà vita in Milner a una tensione che scuote i corpi, attraversa e trasforma l'ambito linguistico. C'è da un lato il continuo emergere di una lingua fatta di segni univoci ed affermativi, che tenderanno a comporsi in serie organizzate, e pretenderanno di farsi nomi univoci, capaci quindi di distinguere, riunire i soggetti ed attrarre a sé i raggruppamenti sociali. E vi è, d'altro canto, la fondamentale inconsistenza di tutte le distinzioni: un'equivocità o radicale omonimia che dissolve le pretese linguistiche, confonde continuamente i nomi disperdendo le masse. È un'altra declinazione di quella supremazia del significante che Lacan scorgeva in Freud prima che in Saussure, di quel significante che staccandosi dal senso si faceva per lui campo mutevole delle associazioni desideranti. Ma nelle pagine di Milner, tutto ciò dà luogo a un'autentica vertigine dell'indistinzione, che lacera il tessuto della conformità linguistica e dell’identità sociale, e che si presta, pertanto, ad essere ogni volta dissimulata. Appare qui la vera posta in gioco de I nomi indistinti. Se infatti politica è creazione delle società, dei partiti e delle unioni, due saranno gli esiti possibili. In primo luogo, la negazione dell'indistinto ad opera dei sistemi di potere: sia come conservazione violenta dei legami intorno ai nomi di Patria, Storia, Razza, Lavoro, sia, nei regimi liberali, come imposizione non meno cruenta di un'unica lingua che riassorba ogni eterogeneità (basic english e localismo identitario sarebbero così i due modi diversi e solidali di negare la dispersione).L'altro esito, anch'esso drammatico, sarà il fallimento politico, e l'esperienza, muta, della disillusione. Ci si unisce e si lotta in nome di una Libertà, per scoprire che questa era in fondo omonima di molte altre libertà, incoerenti, disseminate e contraddittorie; per provare, alla fine della rivolta, «l'indissolubile alleanza di quel che unisce e di quel che disperde, la costante reversibilità della comunità e della diaspora, la ripetuta simmetria del patto e del tradimento». In questo sentimento bruciante risiede la vera tonalità del libro di Milner, scritto nella condizione - la sola - che malgrado tutto lega ancora «i soggetti di cui parlo e di cui faccio parte», coloro che hanno avuto vent'anni durante gli anni sessanta. «Jakobson - si legge nelle pagine finali - aveva parlato di una generazione, la sua, che dissipava i propri poeti... Più del silenzio, che mette in luce la parola, la mutezza, che la nega, era il sintomo decisivo... Oggi, io che non sono Jakobson, ma ho seguito il suo insegnamento, dico che una generazione, la mia, ha dissipato dei soggetti. Non erano poeti, ma comunque erano voci e pensieri. Conosciamo il loro nome e la loro sorte: Untale delirante, Untale incanaglito, Untale chiacchierone, Untale instupidito, Untale e Untale e Untale, muti o sordi o entrambe le cose... Ma chi li enumerasse non farebbe che passare in rassegna l'intera generazione. È il motivo per cui bisogna dire che quel che la mia generazione ha dissipato è, in modo collettivo e distributivo, se stessa».Ora di fronte a tutto questo I nomi indistinti costituisce un vero e proprio contromovimento. Pubblicato nel 1983, così come la prima versione de La communauté désoeuvrée di Nancy e la risposta di Blanchot, La communauté inavouable, può forse unirsi a questi, e a La comunità che viene di Agamben (1990), quale altro cristallo della medesima materia. E se Nancy pensa un essere-in-comune delle singolarità stesse, se per lui la comunità ci è sempre già data e «non è un'opera da fare, ma un dono da comunicare», per Milner il singolare è prima ancora omonimo, cioè essenzialmente equivoco e mille volte ambiguo: siamo tutti singolarmente indistinguibili.Mentre i poteri si mantengono istaurando una lingua definita, ossia «la menzogna stessa», la generazione degli anni sessanta testimonia nella sua muta dissipazione dell'urto con qualcosa di reale. Ha toccato davvero l'omonimia, eppure l'ha esperita come perdita: delle parole in cui aveva creduto, della politica e di se stessa. Ma proprio il suo fallimento, se viene visto in controluce, può rivelare la soluzione: occorre attenersi alla felice ambiguità dei nomi e alla dispersione dei corpi, opporre al disincanto senza pensiero un pensiero delle azioni precarie, dei tentativi che, svanendo, scoprono l'impossibile di ogni volontà generale, che esigono «non un'istituzione, dunque, né una libertà formale, né una patria, ma l'eventualità del loro annientamento».Il finale de La comunità inoperosa suonava come un appello: «Non bisogna cessare di scrivere, non si deve cessare di far sì che il tracciato singolare del nostro essere-in-comune si esponga». Anche in assenza dell'opera restava, per Nancy, un compito da assolvere. I nomi indistinti termina così: «si deve parlare e pensare e nominare... si deve parlare, pensare, nominare l'omonimia - a costo di riassumerla in un solo significante, che è un nome proprio: Lacan». Questo nome compie, abbrevia e conchiude in sé l'intero libro. Come se «essere semplicemente psicanalista» significasse ora finire di scrivere, e finire di scrivere farsi del tutto omonimi. Molti altri pensieri e desideri sapranno quindi liberarsi.