Recensioni / Aprire un secolo: ponti letterari italo-tedeschi

A chi opera oggi nel sistema letterario di un paese – ossia chi media, traduce, scrive, recensisce, fa pubblicare o pubblica letteratura – viene abbastanza naturale considerarsi parte di un contesto sovranazionale fatto di scambi, esportazioni e importazioni di testi, tendenze e valori, oltre che di un ambito il quale, pur appartenendo al vasto mercato dell’editoria, ne costituisce una minima parte, a volte di nicchia, ridotta a poche migliaia quando non centinaia di lettori. Più difficile è forse accogliere quest’evidenza da parte di chi, nel mondo della scuola o dell’università, si trova a operare entro categorie sì funzionali a delimitare un repertorio specifico, ma in sostanza artificiose – sfumata la loro funzione storica di analogoi disciplinari di una concezione ancora ottocentesca delle culture e delle lingue – come quelle delle letterature nazionali. Che ancora persistono, almeno sotto forma di cattedre, corsi, esami e piani orario, nonché nei limiti spesso anche linguistici degli attori coinvolti, a dispetto del rinnovamento della manualistica e dei tentativi, nell’accademia, di affermare una comparatistica competente ma porosa, il più possibile slegata, anche nella spartizione dei poteri, da influenze disciplinari per così dire «nazioniste».
Ammesso che un simile status quo abbia ancora qualche vantaggio sotto l’aspetto scientifico e pedagogico oltre che politico-culturale, una revisione prospettica non è solo auspicabile, ma persino possibile e in atto. Lo dimostra un volume apparso di recente da Quodlibet, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920, apripista di una collana sulla «Letteratura tradotta in Italia» diretta da Anna Baldini, Irene Fantappiè e Michele Sisto. I tre studiosi, di formazione rispettivamente italianistica, comparatistica e germanistica, hanno coordinato dal 2013 su tre diverse sedi fra Roma e Siena il progetto finanziato dal MIUR Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza, dov’è evidente nei termini-chiave adottati il richiamo agli studi di Pierre Bordieu sulle dinamiche che soggiacciono all’esistenza e alla valorizzazione dei testi letterari.
Questo primo risultato editoriale, tuttavia, confezionato dai tre studiosi insieme a Daria Biagi e Stefania De Lucia, è ben più della mera applicazione di un metodo di ricerca socio-letteraria su una materia per sua natura sconfinante. E non solo per gli ulteriori apporti metodologici che integrano il primo, attingendo dove serve alla traduttologia o all’analisi testuale vera e propria. (Senza contare che, oltre ad annunciare ulteriori approfondimenti, il libro rimanda a un portale creato dallo stesso gruppo di ricerca – www.ltit.it – prossimo a diventare il maggior strumento di ricerca on line sulle letterature tradotte in Italia.)
Concentrandosi sul primo ventennio del Novecento e sulle relazioni italo-tedesche, in particolare quelle che hanno improntato l’attività dei cosiddetti «nuovi entranti», ovvero coloro che dalla periferia del campo italiano hanno operato per una sovversione e un rinnovamento del repertorio secondo una nozione parziale ma «forte» di letteratura, il gruppo di ricerca diretto da Sisto ha saputo circoscrivere e illuminare una fase della storia letteraria che è cruciale per comprendere il mutamento di paradigma novecentesco. Scrittori e intellettuali come Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini o Scipio Slataper, traduttori noti o meno noti come Alberto Spaini, Rosina Pisaneschi o Italo Tavolato, editori come Laterza o Carabba si fecero portatori di un’idea di letteratura autonoma, o almeno la cui devozione al mercato si voleva ridotta al minimo, e opposta all’egemonia allora esercitata dal modello dannunziano, nonché a un’accademia e in generale un’episteme dominate dal neopositivismo. Gli strumenti di questa battaglia sono in parte noti anche ai non addetti ai lavori: riviste quali «Leonardo», «La voce» o «Lacerba» diffusero un’idea di letteratura, e con essa una postura di scrittore e intellettuale, che mutuava forme, modelli e strumenti da altri campi, tra i quali appunto quello tedesco. Fu ad esempio su «Leonardo» che Papini propugnò in prima battuta una nozione di «filosofo-poeta» che si sarebbe poi declinata nelle scelte editoriali per la collana «Cultura dell’anima» da lui curata per Carabba, che comprendeva Schopenhauer, Hölderlin, Nietzsche o Novalis. E fu attraverso «La voce» che si diffuse un’idea di letteratura al di là dei generi che, richiamandosi al romanticismo tedesco, affermasse la «superiorità» di forme quali l’autobiografia lirica, il frammento o il saggio critico in quanto espressioni autentiche e tecnicamente incorrotte di un’interiorità.
Il punto è che queste «interferenze» sono tutt’altro che riducibili alla mera importazione di testi, non foss’altro perché la convenzione traduttiva contemplava modi che oggi ci appaiono aberranti: tagli, aggiunte, ricomposizioni che solo dove le intenzioni sono più nobili permettono di parlare di «riscrittura». Ci cascò un po’ anche Prezzolini, quando portò in Italia il suo Novalis. Pure fu proprio sulle pagine della «Voce», da lui diretta, che trovò spazio un dibattito sulla traduzione che, criticando la vecchia maniera, avrebbe gettato le basi della traduzione moderna. E fu proprio un romanzo, genere osteggiato dai vociani, a costituirne il primo esempio eminente: i Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe tradotti da Spaini e Pisaneschi per la collana «Scrittori stranieri» di Laterza – casa editrice dove a farla da padrone, per di più, era un ormai egemone Benedetto Croce. Il quale si era posizionato nel «campo» a partire dai suoi margini, proprio grazie al lavoro per Laterza, come «alleato» dell’avanguardia fiorentina. Solo qualche anno dopo dalle pagine di «Lacerba» Papini e Boine, affiancatisi ormai a Soffici e ai futuristi, avvertiranno in lui un distacco critico e un’obsolescenza di giudizio contrari alle loro poetiche.
Il volume ripercorre queste vicende e altre affini, come la mediazione di Karl Kraus da parte di un marginale ma intraprendente Italo Tavolato, la trattazione sulla «Voce» della questione femminile o l’approdo di questa fase di rinnovamento a forme di transfert consolidate e ancora attuali, in una composizione che si distingue per chiarezza, varietà e funzionalità. Ai cinque saggi veri e propri che introducono la materia e ne mettono a fuoco capitoli salienti seguono altrettante «traiettorie», ovvero ritratti esemplari di alcuni dei mediatori considerati, e un’antologia di testi che, riproponendo varie fonti originali, cementa l’assertività a tratti un po’ assiomatica della prima parte. D’altra parte, leggere ad esempio che i «toni aggressivi della “Voce” [celano] il desiderio di far saltare i “sistemi” più specifici, cioè i rapporti di forza in vigore nei campi intellettuali in cui i singoli aspiranti desiderano inserirsi» fa un effetto stranamente illuminante e persino confortante se visto da oggi, dove l’assunzione di posture e strategie appare talmente esplosa e atomizzata da non permettere un facile riconoscimento delle ragioni «impoetiche» soggiacenti alle pratiche letterarie. Lodevoli infine la chiarezza espositiva, tutt’altro che gergosa, e l’autentica collettività dell’impresa: se ogni parte del libro porta il nome della studiosa o dello studioso che l’ha redatta o compilata, la lettura complessiva dà l’impressione di un insieme davvero omogeneo, frutto di uno scambio di idee continuo, mutuo e partecipato, non frequente nei volumi a più mani che escono dal mondo accademico.