Recensioni / Crisi dell’immanenza

L’immanenza è in crisi. Questa constatazione, che muove da difficoltà generali e intrinseche nel costituirsi di una relazione effettiva fra riflessione politica e prospettive immanentistiche, di per sé dice ben poco. Ciò su cui occorre interrogarsi è piuttosto la specificità e il campo analitico di quest’immanenza, la portata e il significato di questa crisi.
Cominciamo, ad esempio, seguendo la narrazione di Ernesto Laclau, per il quale l’immanentismo è un’opzione teologica e politica che affonda le sue radici nelle questioni cui rispondeva il De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena: come conciliare l’onnipotenza e l’assolutezza divine con l’esistenza mondana del male? La soluzione eriugeniana – entro la quale risulta quantomeno problematico pensare una pratica politica – consisterebbe nell’affermare l’immanenza di Dio al mondo e la conseguente inesistenza del male (p. 273). Il nodo di maggiore criticità di tale proposta risulta, com’è evidente, dalla neutralizzazione totale del negativo in un contesto di totale positività non conflittuale. Criticità, d’altronde, che persistono nel pensiero politico contemporaneo nelle vesti di un piano d’immanenza del tutto positivo, orizzontale e unificato all’interno del quale non è possibile considerare il potere, l’organizzazione e la verticalità se non come esteriorità e trascendenze illegittime, costitutivamente gerarchizzanti e, dunque, tendenzialmente totalitarie. Un naturalismo della soggettività e del politico, in altri termini, che poco ha a che vedere con la costruzione della dimensione effettuale del vivere e con l’eventualità propria alla trasformazione storica (p. 16).
A ben vedere, tuttavia, quest’immanenza non è l’unica. Al contrario, si potrebbe dire che l’immanenza in crisi non sia altro che l’immanenza che non riesce a confliggere con se stessa, che si rifugia nella piena identità delle differenze (per l’appunto, indifferenti), a discapito di un’assunzione radicale dei propri presupposti e di ciò che essi implicherebbero sul versante di un pensiero in grado di smarcarsi dalla falsa alternativa fra l’informe senza fondo e il fondato della forma. Detto altrimenti: l’immanenza in crisi è l’immanenza che non si coglie come crisi, finendo col coincidere irenicamente con se stessa, schiacciando così la portata ontologica del piano di consistenza sulla trivialità dell’orizzontalismo o dell’apologetica doverosa dell’insurrezione. Si pensi, al riguardo, alle posizioni tanto distanti quanto affini – certo, su questi punti – di Hardt&Negri e del Comité invisibile, insieme a tutto ciò che può essere compreso, senza eccessivo discredito, nella categoria di folk politics.
Al venir meno della funzione politica dell’immanentismo, dunque, non corrisponde uno sguardo nostalgico alle trascendenze. Piuttosto, bisognerà far giocare l’immanenza contro l’immanenza – Deleuze contro Deleuze, come traspare dalle pagine dedicate da Roberto Esposito alle oscillazioni interne al testo del filosofo francese (pp. 29-34). Solo a questo prezzo sarà possibile venir fuori, non già dalla crisi, ma dal vicolo cieco cui condannano le dualità di potere e pura potenza, forma e informato, potenza costituente e potenza destituente. Aprendo la strada, forse, alla complessità del potere istituente e all’ambito dell’informale.
Questo, in estrema sintesi, lo spazio problematico saggiato dal primo volume del nuovo Almanacco di Filosofia e Politica diretto da Roberto Esposito, Crisi dell’immanenza: Potere, conflitto, istituzione, edito da Quodlibet e a cura di Mattia Di Pierro e Francesco Marchesi. Volume senza dubbio necessario, la cui urgenza nel panorama filosofico italiano ben si accorda con lo stato attuale della questione nell’orizzonte internazionale. Frutto di un lungo lavoro seminarile svoltosi presso Pisa, il collettaneo si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate agli interventi di studiosi ben noti dello scenario filosofico-politico attuale – oltre al già nominato Esposito, Laura Bazzicalupo, Donatella Di Cesare, Simona Forti, Christian Laval e Mario Tronti – ; a saggi firmati dai partecipanti del seminario e incentrati sul rapporto fra politica e immanenza in alcune tra le figure maggiori della riflessione filosofico-politica contemporanea; a testi di Michel Foucault, Ernesto Laclau e Claude Lefort finora inediti in lingua italiana. Lo sforzo degli autori ruota inevitabilmente attorno all’impasse in cui il linguaggio filosofico della tradizione s’avvita conseguentemente alla sua tardività rispetto all’evento: ripensare e costruire nuovamente, dunque, il potere, il conflitto e l’istituzione.
Lo scritto di Roberto Esposito, posto in apertura alla prima sezione del volume, si sviluppa a partire dall’individuazione dei “tre paradigmi ontologico-politici più influenti della filosofia contemporanea”, da intendersi rigorosamente in chiave post-fondazionale, giacché la filosofia è stata “spinta da Nietzsche a un punto di non-ritorno” (pp. 24-25). Lo sfondo di questo intervento è fin da subito l’analisi dell’ontologia politica svolta dal filosofo napoletano in Politica e negazione (2018) – e ciò è tanto più evidente quanto più i riferimenti espliciti rimandano al dibattito presente in Effetto Italian Thought (2017).
Il primo di questi tre paradigmi farebbe capo al pensiero del secondo Heidegger (ma ben più pertinente è il nome di Giorgio Agamben): a partire dal dopoguerra, infatti, la differenza ontologica si sarebbe risolta nella figura della negazione – “negazione della politica effettiva, omologata alla potenza nichilistica della tecnica” e “negatività dello stesso presupposto impolitico ormai del tutto ritirato nel proprio non-essere politico” (p. 27). Se ciò che condanna la politica alla ripetizione del nichilismo non è altro che la categoria di opera, l’unica conclusione capace di contenerne la sua potenza distruttiva sarà la disattivazione dell’opera stessa a partire da un pensiero destituente che, nel caso di Heidegger, si concreta nell’abbandono di ogni progetto politico, e, nel caso delle ontologie politiche post-heideggeriane, nella forma di una potenza destituente.
Il secondo versante critico, ben più centrale nell’intero discorso, è costituito dalle derive di un certo deleuzismo bergsoniano che, facendo leva su alcune effettive oscillazioni del testo deleuziano, farebbe a meno del limite e del negativo, risolvendosi integralmente nella figura dell’anima bella, incapace di fare la differenza. Il piano di immanenza puramente positivo di Toni Negri – perché è di lui che si parla – eliminerebbe dunque il negativo e, con esso, il conflitto: “Basta modificare la prospettiva, per riconoscere nel presente il nucleo affermativo che già si libera al suo interno” (p. 34).
La terza proposta ontologico-politica, definita in maniera provvisoria “neo-machiavelliana”, non è altro che la via – non tanto mediana, quanto appartenente a un’altra logica – delineata dallo stesso Esposito, qui con il ricorso al pensiero di Claude Lefort. Ordine e conflitto, titolo di una monografia espositiana del 1984, tornano al centro della riflessione sul politico nella modalità inedita di un pensiero istituente: l’istituzione, mai riducibile a quella statale, è capace di metamorfosi e vive nella tensione non dialettica fra affermazione e negazione; generata dal conflitto sociale, ha il compito di riprodurlo, legittimato e potenziato dalla decisione politica, portandolo a espressione sul piano simbolico (p. 35). Il mantenimento del conflitto, piuttosto che la sua neutralizzazione, è l’unico argine che una democrazia può e deve porre, in quanto pensiero istituente, al collasso tra reale e simbolico che ha caratterizzato le società compiutamente immanenti – perché prive di esterno – nelle pagine più buie del Novecento. Tale nozione di istituzione, va da sé, ha fra le sue fonti imprescindibili lo stesso Deleuze, le cui ambiguità erano pur state denunciate. Ciò è sintomatico dell’atteggiamento di Esposito, volto non tanto a fornire una soluzione immediata e conciliante, quanto a spianare la strada, merleau-pontyianamente, a un pensiero dell’ambiguità, in grado di mantenere in tensione ininterrotta l’agonismo e il rischio ineliminabile che esso comporta.
Nel suo saggio, Donatella Di Cesare si confronta con le prospettive filosofiche più recenti del realismo speculativo anglofono conducendo una critica serrata alla rappresentazione e al dispositivo di un’immanenza satura che produce un “presente asfittico di un mondo che, poggiando sulla credenza nell’indenne, ha preteso di immunizzarsi dal fuori” (p. 42). Il realismo capitalista, come l’autrice concede a Mark Fisher, ribadisce questa saturazione prevenendo il futuro e costituendo il mondo sullo schema di una prigione temporale. La risposta di Di Cesare è il rilancio di un esistenzialismo contro il capitale: l’esistenza, irriducibilmente eccentrica, è precisamente il venir fuori dalla stasi, movimento “exofilo” in grado di ostacolare politicamente ogni forma di equivalenza ontologica propria al mercato.

Il testo di Simona Forti declina la prospettiva istituente di Esposito in termini etici, intendendo con ciò la postura “che un corpo umano individuale assume nel rapportarsi alle relazioni di potere nelle quali si trova immerso” (p. 49). Sulla scia dei suoi lavori precedenti, Forti elabora, a partire dal due-in-uno di Arendt, dall’estetica dell’esistenza di Foucault e dall’anima di Patočka la visione di un socratismo atipico per il quale non è possibile estromettere o denegare la molteplicità conflittuale che attraversa lo spazio della soggettivazione. Ancora una volta, si tratta di smarcarsi dall’idea che ci sia un’unica e sola alternativa: quella fra il soggetto sovrano, padrone della forma e fondamento, e la de-soggettivazione assoluta e tassativa, ossia l’informe come obiettivo di un desiderio senza fondo. È possibile invece un ethos della libertà che non si realizzi nel nomadismo a oltranza o nel ritorno a una soggettività precostituita, banale e indiscussa: l’azione politica in grado di contrastare il rischio di una vita fascista non può che essere la manifestazione visibile, attraverso i corpi, di un’etica che si radica nella quotidianità della relazione fra sé e gli altri e che si esercita nella tensione costante alla costituzione di una forma di vita, per così dire, informale.
Laura Bazzicalupo, in Radicalizzare la democrazia, indaga le sfide poste alla e dalla democrazia radicale nell’epoca del neoliberismo. Laddove l’ontologia della mancanza mette in opera una costante reductio ad unum delle differenze, cogliendo sì il piano politico del conflitto, ma solo per svalutarne la potenza di soggettivazione attiva nella riproposizione di un Soggetto unitario; l’ontologia della pienezza sembra perdere questo stesso conflitto nell’esaltazione di un’affermatività senza contrasto, affermatività sulla quale fa leva anche l’immaginario neoliberale. In maniera esplicita, lo scarto produttivo di una buona politica viene situato nel post-kantismo che determina la specificità di Mille piani rispetto ad altri lavori del filosofo di Differenza e ripetizione: il piano d’immanenza, così come il CsO, è tutt’altro che spontaneità e disorganizzazione; l’immanenza, così come il corpo, si costruisce pezzo per pezzo, in un orizzonte in cui tanto il conflitto quanto la soggettività hanno funzione dinamizzante.
Lo studio di Laval è dedicato alla nozione di produzione in relazione all’ambito economico e a quello, se di ambito si può parlare, delle relazioni di potere. Il rapporto Foucault-Marx, vexata quaestio degli studi foucaultiani, è reso nella sua complessità in merito, segnatamente, all’economicismo della concezione marxiana del potere e alla tematica della produzione di soggettività. Proprio su questi due punti, infatti, Foucault si muove oltre Marx, ma con Marx contro Marx, mediante una scissione del filosofo tedesco in contrasto frontale con l’ortodossia marxista. Il risultato della disamina, tuttavia, porta anche a un deragliamento dall’ortodossia foucaultiana: l’ipotesi produttiva “trova forse nello studio dei modi di soggettivazione la sua formulazione più generale e al tempo stesso una duttilità maggiore” (p. 109). È infatti a partire da questo che sarà possibile disambiguare il concetto di produzione, facendo cadere ogni residuo di economicismo e di essenzialismo.
Mario Tronti conclude questa prima sezione con un breve contributo su Il demone della politica e l’angelo della storia. Più che di un vero e proprio saggio, si tratta di uno scritto d’occasione nel quale l’autore, partendo dalle sue interpretazioni di Weber e Benjamin, ne approfitta per chiarire alcune sue posizioni e aprire incisive parentesi di confronto con la contemporaneità.
La seconda sezione del primo volume dell’Almanacco si sofferma più puntualmente sull’analisi del nesso fra ontologia e politica nel pensiero politico post-fondazionale. Significativamente, l’apertura – affidata ai saggi di Sebastiano Taccola e Nicola Lorenzetti – è riservata al concetto di critica, mediante il quale, con le dovute differenze, tanto Marx quanto Adorno riescono a considerare il sociale come un rapporto risultante da un processo (a un altro esponente della teoria critica, Marcuse, è dedicato l’articolo di Taila Picchi). Le tematiche espositiane tornano incessantemente nel corso di questi contributi: Elia Zaru, rifacendosi volentieri a Politica e negazione, mostra come sia possibile un passaggio da una teoria politica del conflitto illimitato e a termine (Tronti e Negri, su lati opposti della medesima barricata) a un pensiero del conflitto limitato e interminabile, del quale è esempio Cornelius Castoriadis. Si vede, dunque, come un certo modo di intendere la trascendenza del politico sia più benefico che contraddittorio nei confronti dell’immanenza del sociale. L’opposizione, intesa con Esposito quale figura affermativa della differenza, è ciò che consente di evitare la rimozione del negativo all’interno di un’ontologia e di una biopolitica compiutamente immanenti. Ciò, ad esempio, è quanto si vede in Rancière secondo l’analisi di Sabino Paparella: la politica è per se stessa impropria, l’opposizione e l’alterità ne sono condizione e permettono di resistere al richiamo del pre-politico e della coincidenza fra piano ontologico e piano politico (coincidenza dalla quale, come mostra Silvia Dadà, Jean-Luc Nancy si distanzia dopo non poche difficoltà).
Due saggi, firmati da Andrea Di Gesu e Paolo Missiroli, tematizzano il pensiero di Michel Foucault, assecondando la tendenza, ben presente nel volume, a valorizzare gli aspetti di continuità e di maturazione relativi al cosiddetto “ultimo Foucault”: è infatti nella parrhesia cinica che Di Gesu è in grado di rintracciare un pensiero foucaultiamo del comune, a seguito di un lungo percorso volto a eliminare ogni residuo di trascendenza, senza con ciò rigettare l’opposizione. Missiroli, inoltre, mostra l’importanza crescente e la forza costante del concetto di limite in tutto l’itinerario di Michel Foucault, concludendo anch’egli con la necessità di liberarsi da una lettura unilateralmente de-soggettivante dell’immanenza.
Chiudono il volume tre testi, la cui pertinenza è autoesplicantesi, ancora inediti in lingua italiana: un’importante intervista a Michel Foucault del 1977 da parte di Rouge (per il tramite di Christian Laval), la densissima e polemica recensione a Impero di Ernesto Laclau e una delle ultime conferenze tenute da Claude Lefort su potere e democrazia.
Quali possibilità reali si prospettino, quali transizioni, non è dato sapere; nondimeno ogni vicolo cieco ha qualcosa da darci – purché non si insista su di esso, e a patto che la nuova postura sia meno comoda della precedente. Dev’essere ben chiaro che l’affermazione di un nuovo ordine non può che essere evenemenziale e mai decisa, ché lo stesso mantenimento del conflitto istituente è tutt’altro che privo di problemi, giammai certo. Crisi dell’immanenza, per questa e altre istanze, è un libro rilevante. Se è vero, come afferma in apertura Esposito, che fra crisi del pensiero sulla politica e crisi politica c’è un rapporto o, più precisamente, che la crisi politica ha una radice nel pensiero, l’orizzonte può apparire con ciò meno nemboso.