Recensioni / Il romanzo italiano e la palude della non fiction

Una riflessione su saggistica e narrativa e sugli ibridi che le loro intersezioni sono in grado di generare può muovere i primi passi dalla riflessione che Aristotele nella Poetica applica alla storia considerandola in opposizione alla poesia. La storia, scrive Aristotele, descrive «quel che è stato», la poesia «quel che potrebbe essere». Ma dove un saggio arriva a essere romanzesco e contemplare dunque anche le possibilità, le eventualità figlie dell’immaginazione? E dove, viceversa, un romanzo arriva ad assurgere valore di testimonianza anche teorica, perché di testimonianza sulla realtà?
Buona parte della narrativa italiana degli ultimi trent’anni è stata catalogata come “nonfiction”, e Lorenzo Marchese si prefigge di sviscerare e analizzare le ragioni di tale catalogazione in Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction? (Quodlibet, pagine 304, euro 24,00). La ricognizione che svolge è puntuale e di un’esaustività finanche eccessiva: nessuno manca all’appello, là dove talvolta sono le eccezioni e le assenze a dare vera forma alle teorie e le presenze. Lo studio intende mostrare quanto cruciali siano i limiti che separano teoria e fantasia, saggio e romanzo. Faglie di confine cmciali nella loro labilità. Il vero snodo arriva con Adorno e Benjamin e la loro idea di “saggio romanzesco”: è lì che si evita la genericità e l’imprecisione del romanzo-saggio, sua forma speculare e contrapposta, e si dà adito a qualcosa di credibile perché disseminato di spunti finzionali, ma nella cornice di una struttura altrimenti logica. Credibilità: quello il piano sul quale da decenni ormai si gioca la partita tra saggistica e narrativa, tra non-fiction e fiction. Se a partire dagli anni ottanta la non fiction ha incominciato a sfidare la fiction avanzando pretese di maggiore verosimiglianza, accade nel decennio successivo che la narrativa si arrenda da un lato alla necessità di inglobare anche il mondo reale in ogni tipo di narrazione, dall’altro alla pervasiva, ingombrante presenza della stessa realtà del mondo. Un «inaggirabile grumo di realtà che non si lascia sciogliere da nessuna finzione» nelle parole di un altro critico letterario, Raffaele Donnarumma.
Ecco Marchese elencarci dunque molte pubblicazioni degli ultimi decenni, tutte secondo lui ascrivibili alla categoria di “non fiction”: autobiografie incastonate in più ampi segmenti di storia (La scuola cattolica di Edoardo Albinati), biografie di uomini non illustri come nelle Vite minuscole di Pierre Michon o nel miglior Pontiggia, o la pregevole e originale ricerca stilistica e “ucronica” di Davide Orecchio con i suoi Città distrutte e Mio padre la rivoluzione. E tanti altri libri apparsi in questi anni dove la Storia viene sussunta a vicende personali, storie realmente accadute a genitori o a nonni, il ricorso alle generazioni precedenti motivando un’esigenza di romanzare pur di ricostruire, ricordare, capire. Se la panoramica sui non fiction novels restituisce una veduta istantanea piuttosto nitida, dell’attuale condizione del romanzo dalla lettura del saggio di Marchese si capisce poco. Sazie un po’ storditi dai moltissimi esempi ci si ritrova perplessi, la mente affollata di domande. Dove andrà la non fiction? Quanto spazio ancora è dato al romanzo che di saggistico non abbia nulla? E quale azione produce l’onnipervasività del virtuale, che genere di effetti la vita “iperconnessa” comporta nel bene e nel male su ogni commistione di lucidità e fantasia, di ricostruzione e reinvenzione? Le conseguenze dell’ossessiva comunicazione e della vanitosissima autorappresentazione social in cui esausti galleggiamo sono profondi, sulla saggistica tanto quanto sulla narrativa. Profondi quanto non ancora quantificabili né descrivibili. Ed è invece forse il momento di cominciare a contare i danni.