In uscita in questi giorni per Quodlibet, la prima traduzione italiana del celeberrimo libro che nel 1950 Alan Lomax dedicò all’«inventore del jazz». Per gentile concessione dell’Editore, ne anticipiamo il Preludio.
Quel dolce giorno di maggio del 1938, nessuno avrebbe potuto credere che Jelly Roll Morton non avesse la fortuna dalla sua. Il suo completo professionale da cento dollari non aveva una piega, come una banconota appena uscita dalla zecca; il suo orologio da tasca e i suoi anelli erano d’oro; e il suo famoso diamante, incastonato in oro su un incisivo, brillava come un lume a gas... Nella Biblioteca del Congresso né la quiete dell’auditorium, abituato alla musica da camera, né i busti dei grandi compositori, indiffe renti nelle loro nicchie, imbarazzavano in alcun modo Jelly Roll. Al cospetto dei grandi uomini e della Storia si sentiva a casa propria.
Sapeva che la sua musica aveva girato il mondo. Anche se non aveva mai suonato davvero a Whitehall, anche se solo nella fantasia il re aveva esclamato «Create Lord mister Jelly!», sapeva che il suo jazz di New Orleans aveva scaldato l’atmosfera dovunque, da Basin
Street a Buckingham Palace... Il suo sorriso di diamante illuminò la sala oscura, quando cominciò a evocare i suoi felpati ritmi da osteria dal pianoforte a coda. «Lo senti questo riff?», disse. «Ora lo chiamano Swing, ma è solo una piccola cosa che ho inventato un sacco di tempo fa. Già, credo che quel riff sia tanto vecchio che ormai gli sarà cresciuta la barba. Qualunque cosa suonino oggi quei ragazzi, non fanno che suonare del Jelly Roll».
Figlio creolo di una New Orleans ai suoi ultimi giorni di gloria, Jelly Roll era destinato a divenire il primo e più influente compositore di jazz. Lui e i suoi Red Hot Peppers resero piccante il jazz più bollente degli anni Venti, ma la generazione della Grande Depressione dimenticò Jelly Roll e la sua musica. Dovette impegnarsi le giarrettiere tempestate di diamanti, e nel 1938 suonava per un dolce e un caffè in un oscuro locale notturno di Washington. Anni di povertà e di oblio non avevano però offuscato il suo brillante talento pianistico, né mortificato la sua autostima. Venne alla Biblioteca del Congresso per eternarsi nei suoi archivi, per crearsi la propria nicchia nella Storia e, incidentalmente, per porre le basi della propria lotta volta a riconquistare la vetta del successo. Questo creolo solitario, senza un soldo in tasca e senza un amico al mondo, stava abbozzando una strategia per far causa all’agenzia Mca, Music Corporation of America, e all’Ascap, American Society of Composers, Authors and Publishers.
C’era qualcosa di terribilmente affascinante in questo vecchio jazzista, con i suoi modi da gentiluomo del Sud e il suo gergo che risaliva a un’altra epoca. Decisi di scoprire quanto della vecchia New Orleans sopravvivesse in lui. Così, con il microfono ben piazzato vicino al pianoforte del Coolidge Chamber Music Auditorium, mi proposi di registrare qualche testimonianza di Jelly Roll, senza immaginare di aver incontrato un Benvenuto Cellini creolo.
L’amplificatore era caldo. La puntina tracciava una tranquilla spirale sull’acetato in movimento. «Signor Morton», dissi, «cosa mi racconta degli inizi? Ci dica qualcosa sul luogo in cui è nato, su come ha cominciato e sul perché... e magari potrebbe continuare a suonare il piano, mentre parla...».
Jelly Roll annuì e le sue mani cercarono dolci e strani accordi, su un tempo indolente. ... una voce pietrosa, ammorbidita ai margini, non parlava ma srotolava la propria vita in qualcosa di molto simile a un canto... ogni frase era quasi la strofa di un lento blues... ogni strofa fluiva dalla precedente, come i mulinelli di un grosso e pigro fiume del Sud, che occulta la sua potenza sotto una placida superficie scura...
In quel caldo pomeriggio di maggio, alla Biblioteca del Congresso fu inaugurato un nuovo modo di scrivere la storia, una storia nata dalla musica; la musica evocava ricordi e forti sentimenti, la storia emergeva dal cuore di un singolo individuo, sfavillante nell’eloquio
e accesa di egocentrismo. Nomi di amici morti da lungo tempo e di locali silenziosi da mezzo secolo, canzoni e melodie e ben precisi stili musicali di antichi esecutori di New Orleans, dimenticati da tutti tranne che da Morton: lui ricordava tutte queste cose come
se fossero accadute il giorno prima, colmando abilmente qualche fastidiosa lacuna della sua storia con i successi dei suoi amici, costruendo una leggenda.
E mentre la leggenda cresceva e apriva i suoi petali sulla tastiera di quel pianoforte a coda del Congresso, le poltrone della sala andavano riempiendosi di spettrali ascoltatori: figure con i costumi del Mardi Gras, favolose prostitute adorne di pennacchi e diamanti, duri tipacci di Rampart Street in peg-top e box-back, neri scaricatori di porto che provenivano dal
lungofiume carichi di gomene, meticce caffelatte che sotto i vivaci turbanti ridacchiavano ai racconti di Morton, vecchie signore dai severi volti di pergamena nascosti da scialli neri, jazzisti d’ogni aspetto che fornivano un denso sottofondo di fiati; perché era la loro leggenda quella che Jelly Roll stava tessendo al pianoforte, la leggenda del doloroso e glorioso
emergere dell’hot jazz in cui tutti loro avevano svolto un ruolo.
Qualcosa accadde, là dove il delta del Mississippi lava i propri piedi fangosi nel Golfo azzurro, qualcosa che ci tormenta, ci affascina, ci perseguita uscendo dalle nere gole di mille e mille scatole musicali. Questo qualcosa fu il jazz, che prese forma a New Orleans intorno al 1900 e nell’arco di una generazione batteva nel cuore della maggior parte delle città del pianeta.
Ancora mezzo secolo dopo, la genealogia di ogni buon jazzista si può far risalire a quel pugno di creoli mezzosangue che compirono l’atto originario della creazione. Come Jelly Roll è il «padre» del pianoforte hot, così il nero Buddy Bolden ha aperto la strada agli altri trombettisti hot, e Papa Tio «ha insegnato a ciascuno di noi come si suona il clarinetto». Questi uomini si conoscevano tutti fra loro. Da ragazzi seguivano insieme le parate o, divisi fra differenti gang
di quartiere, combattevano nei vicoli sanguinose battaglie a suon di sassi. In seguito cucirono insieme il complesso tessuto dell’hot jazz, una creazione genuinamente americana, inizialmente disprezzata dagli esteti e bandita dai moralisti. Nel frattempo il fox-trot divenne il nostro ballo nazionale. Oggi il jazz dà colore a gran parte della musica statunitense e a molta musica popolare in tutto il mondo.
Forse un fenomeno del genere non si era mai verificato prima. Forse nessuna musica, nessun prodotto dello spirito umano si è mai diffuso fra tanta gente in così breve tempo. In questo senso, il jazz è una delle meraviglie del secolo: una meraviglia che ha creato un mostro, una spaventosa industria del divertimento che di jazz si nutre e cresce in proporzioni titaniche, sviluppando un complesso di colossali corpi intrecciati; dai loro milioni di orifizi defluisce ogni settimana la materia di cui sono fatti i sogni che abbiamo svenduto.
La vita di Jelly Roll copre l’intera «età del jazz», dalle street bands di New Orleans alle sweet bands di New York. Con lui possiamo lasciarci alle spalle le derive commerciali di Hollywood e di Tin Pan Alley e tornare al momento delle origini, a New Orleans. Nelle sofferenze e nelle fantasie di quest’uomo possiamo ritrovare la qualità autentica che distingue il jazz dalle molte altre forme di musica statunitense che affondano le radici in Africa: gli spiritual, i canti di lavoro, il blues, il ragtime.
«A New Orleans avevamo gente di tutti i tipi», diceva Jelly; «c’era il francese, lo spagnolo, quello delle Indie Occidentali, l’indiano d’America; e ci mescolavamo tutti partendo da un’assoluta uguaglianza...». Così, la tollerante New Orleans nel corso dei secoli assorbì lentamente influenze musicali iberiche, africane, cubane, parigine, martinicane e americane. Nel jazz si possono ritrovare tutti questi sapori, perché il jazz è una sorta di zuppa musicale, come il gumbo. Ma ad assaggiarla, a mescolarla e a controllarne la cottura sono stati
i creoli di colore di New Orleans. Nel 1860 il censimento attestava quattrocentomila creoli di colore liberi in Louisiana. La loro capitale era New Orleans, dove per cent’anni essi educarono le ragazze più belle, che cucinavano i piatti più prelibati ed erano corteggiate con la musica più calda che si potesse sentire in tutta la valle del Mississippi.
Il carattere emozionale dell’hot jazz va cercato nella vita quotidiana di questi creoli, perché la loro musica non era soltanto una propaggine afroamericana, non una semplice amalgama di elementi diversi, ma una musica nuova di (e da) New Orleans: un contrappunto creolo di protesta e d’orgoglio, pur senza parole. E fu così che New Orleans divenne una sorta di piccola, subtropicale Atene della musica popolare del mondo intero.
Perché per un secolo le strade di Atene pullularono della più brillante accolita di personalità che la terra abbia mai conosciuto? È una domanda destinata a restare oggetto di congetture, poiché per noi quell’Atene è una realtà ormai perduta. New Orleans invece, con la sua era di creatività, è una realtà a portata di mano. Sono ancora vivi molti degli anziani che assistettero ai primi goffi e affascinanti passi del jazz quando questo era ancora bambino. Attraverso i loro ricordi, attraverso il loro racconto della calda musica di New Orleans, possiamo avvicinarci alla magia e al mistero di una fioritura culturale.
Jelly Roll e i suoi compagni, infatti, erano ben consapevoli di aver partecipato a uno di quei rari momenti di estasi grazie ai quali possono aver luogo le trasformazioni culturali. Parlavano di quell’esperienza con un’emozione simile a quella di chi narra di essere sopravvissuto a un terremoto o di aver assistito alla danza degli elefanti. Effettivamente furono i figli di un’età dell’oro, e dal momento che in essa ebbero una parte, ricordavano vividamente i sentimenti provati in quei giorni luminosi. Spero che questo libro costituisca
una testimonianza della loro eloquenza e della loro sensibilità.
Con Jelly Roll i giorni dell’intervista scorsero fino a diventare un mese; il gran numero di incisioni realizzate in presa diretta sono ora conservate alla Biblioteca del Congresso, e costituiscono una ricca rievocazione della parte più sommersa degli Stati Uniti. Ogni
tentativo di controllare o di correggere la storia raccontata da Jelly si è dimostrato vano. I musicisti jazz sono forti nel ritmo, ma deboli sulle date. Di ogni episodio ci sono quasi tante versioni quanti erano gli elementi nel gruppo. Le linee generali della sua storia sono solide e fedeli alla realtà; e se pure, quanto ai fatti, Jelly e gli altri ragazzi che stavano nelle band la pensano in modo diverso, tuttavia essi esprimono su di essi lo stesso, unanime sentimento.
Per correttezza nei confronti di Morton, ho cercato di dare alla sua narrazione la massima coerenza possibile, cosa che avrebbe certamente fatto lui stesso se avesse potuto scrivere questa storia da sé.n Per il resto, Morton e i membri delle varie formazioni raccontano la
storia ciascuno a suo modo. Talvolta millantano; talvolta ricordano con precisione le parole dette e la sostanza dei fatti; talvolta ricordano gli eventi quali avrebbero voluto che fossero; ma in qualche modo, dall’intrecciarsi di caliginose memorie, la verità emerge comunque: un cenno su grandi segreti; come cresce la musica; come gli artisti sanno essere ruffiani quando è necessario, eppure continuano a far ballare il mondo con le loro note orgogliose.
Mister Jelly Roll ora si china avvicinandosi alla tastiera, l’espressione oscurata da un sorriso obliquo, le morbide e potenti mani a richiamare armonie tropicali. E comincia...
A New Orleans, a New Orleans, Città della Louisiana...