I saggi raccolti da Quodlibet nell’Almanacco di Filosofia e Politica, diretto da Roberto Esposito, offrono una ricca e penetrante riflessione filosofica sul presente. L’assunto è che la politica occidentale sta vivendo una crisi profonda. L’ipotesi è che questa crisi sia in qualche modo connessa alla filosofia. In particolare, gli ultimi dieci anni di «grande trasformazione» avrebbero mostrato i limiti di una parabola filosofico-culturale che, avviata nel 1968, ha ruotato attorno al concetto di immanenza. Se «quello sessantottesco è stato», come sostengono i curatori del volume Mattia Di Pieno e Francesco Marchesi, «il tentativo di costruire un pensiero del tutto privo di gerarchie», mezzo secolo dopo assistiamo (come vuole il titolo) alla Crisi dell’immanenza.
Gli esercizi di «ontologia dell’attualità» sono organizzati in tre sezioni, che ospitano prima Donatella Di Cesare, Simona Forti, Laura Bazzicalupo, Christian Laval, Mario Tronti ed Esposito stesso, poi una serie di studiosi più giovani e, infine, la traduzione di tre interventi di Michel Foucault, Ernesto Laclau e Claude Lefort, nei quali ritroviamo i termini scelti come sottotitolo: «potere, conflitto, istituzione». Inun’intervista del 1977 Foucault spiega distesamente la sua concezione del potere. Non riducibile a un insieme di risorse formalmente detenute da pochi, il potere sarebbe un sistema di relazioni che coinvolge tuffi, fondato sulla promozione di determinate condotte più che sulla repressione. La teoria di Foucault, innovativa e influente, parla ancora al nostro presente, al di là della «crisi dell’immanenza» in cui sono rimasti intrappolati tanti suoi interpreti.
Nel 2001 è proprio un libro intriso di foucaultismo come il best-seller di Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, ad essere severamente criticato da Ernesto Laclau. Il filosofo argentino ritiene che, ammesso e non concesso che il capitalismo contemporaneo si configuri come un impero globale, sarebbe ingenuo immaginare che esso generi di per sé una moltitudine contraria e conflittuale. La lotta contro l’attuale assetto di dominio non è spontanea, ma richiede, per manifestarsi e ottenere risultati, un’articolazione politica. Serve un soggetto politico all’altezza dei tempi, capace di organizzare l’egemonia e il conflitto. Si tratterà poi di identificare, precisamente e concretamente, luoghi, modalità, finalità.
Ma dei tre archiviati nell’Almanacco è Claude Lefort ad apparire il classico oggi più fecondo. In una conferenza risalente al 2000 il filosofo francese ragiona su potere, conflitto e istituzioni. Questo termine, precisa tuttavia Lefort, non va inteso in modo convenzionale, bensì «in un senso che conserva la forza del verbo istituire». Un verbo che esorta a pensare la società nel suo carattere storico-politico, diversamente tanto dall’antico, che la vede come un dato spontaneo e naturale, quanto dal moderno, che la rappresenta come un fatto artificiale e contrattuale.
L’indicazione di Lefort viene valorizzata da Roberto Esposito, per differenza rispetto a Giorgio Agamben e Antonio Negri, teorici come lui della biopolitica, e alle loro fonti. Se Agamben e Negri mirano rispettivamente alla «potenza destituente» e al «potere costituente», Esposito riflette sulle potenzialità di un «pensiero istituente». Si tratta di un nuovo modo di scongiurare l’alternativa tra «ordine e conflitto» (come recita un libro che nel 1984 Esposito dedicò a Machiavelli).
È il momento di ripensare le istituzioni, per sfuggire all’atrofia di un ordine senza conflitto e all’irrazionalità di un conflitto senza ordine.