Recensioni / Una dura alternativa democratica all’architetto-esteta

L’ultima volta che incrociammo il lavoro di Lucius Burckhardt (Davos 1925-Basilea 2003), sociologo, economista e fine teorico del progetto, fu alla Mostra di Architettura di Venezia n12014, dove Hans Ulrich Obrist, nel padiglione elvetico, decise di accostarlo 11' architetto inglese Cedric Price. Li considerava tra i pensatori più visionari del ventesimo secolo, anche se Price liquidò l'utopia come un atto criminale» e Burckhardt la definì «retorica», poiché «le utopie urbane sono perpetuazione dell'attuale pensiero degli architetti». Precisazioni che fanno riflettere e :magari ne correggerebbero la lettura. Tuttavia Obrist, dedito a mettere in risalto l'eccentricità dei due, scelse l'impalpabile «approccio performativo» per sedurre un pubblico sempre a caccia di novità.
Prima di quella mise-en-scène evocativa c'era stata un'altra occasione, nel 1976, che invece vide presente Burckhardt. Su invito di Gregotti egli curò per la Biennale, come storico e presidente del Deutscher Werkbund, la mostra Werkbund. Germania, Austria, Svizzera. La differenza tra i due episodi è culturale e non solo temporale, ricordando le smanie postmoderniste di allora che poi, come per qualsiasi fenomeno di moda, defluirono lente verso il piatto panorama del nuovo millennio laddove, per dirla con le sue parole, «tutto ciò che ci circonda diventa sempre più brutto».
Nel leggere i suoi scritti, per la prima volta tradotti (da Carla Buttazzi e Elisa Ricci) col titolo Il falso è l'autentico. Politica, paesaggio, design, architettura, pianificazione, pedagogia (Quodlibet, pp. 256, € 24,00), molte sono le riflessioni condivisibili, tutte di incalzante attualità e realismo. Nella postfazione Martin Schmitz e Jesko Fezer affermano che Burckhardt «non perdeva occasione di ripensare radicalmente forme e strutture costruite dall'uomo, ponendo al centro delle sue riflessioni aspetti ignorati dagli esperti e sfuggiti ai profani». Dobbiamo a questi due architetti e alla moglie Annemarie se parte degli scritti di Burckhardt nel 2012, tradotti in inglese dalla viennese Springer-Verlag, raggiunsero un pubblico più vasto. Si deve invece a Gaetano Licata averli integrat per l'edizione italiana, in particolare con quelli sull'«intervento minimo»: la strategia contro le «soluzioni assolute» della pianificazione accademica, che il sociologo svizzero illustrò a Gibellina ne11981, là dove politici e urbanisti fecero insieme danni nella ricostruzione post-terremoto.
Come si è detto sono molteplici i fronti sui quali il «dotto universale» svizzero decise di combattere per sostenere i valori della democrazia. L'impresa non riguardò solo le istituzioni che gli affidarono incarichi di responsabilità e di docenza (ETH, Zurigo, Gesamthochschule/Universitàt, Kassel, Bauhaus-Universitàt, Weimar), ma anche la comunità scientifica di lingua tedesca all'interno della quale, come critico («Das Werk») e studioso, si confrontò con le sue radicali posizioni riguardo alla società capitalista. Per meglio incidere divenne scrupoloso osservatore della realtà quotidiana. Lo incuriosivano i gesti e le cose semplici, apparentemente insignificanti se non del tutto «invisibili» (McLuhan). Si appassionò così alla notte, «colonizzata» in epoca industriale, e allo «sporco», per eliminare il quale fanno le spese aria e acqua. Burckhardt deplorerà sempre il fideismo nel progresso economico che «nulla ha a che fare con il progressismo».
Ne è una chiara dimostrazione la pianificazione urbanistica: non elabora strategie, ma ricerca soluzioni che siano le più visibili e politicamente spendibili, inoltre avanza con un linguaggio tecnocratico che inibisce la partecipazione. Rivolgendosi agli specialisti del progetto dirà che dalle sindromi che affliggono il mondo (la crescita demografica, l'inquinamento, la povertà, ecc.) si guarisce con modelli adeguati, non con quelli, «permeati di contraddizioni», ereditati dalle avanguardie degli anni venti che poi, nei cinquanta, hanno conquistato le università. Li scorgeva a Ulm nella «settaria e intollerante» Hochschule far Gestaltung: ferma al dogma che l' «usura della forma a opera della moda» dovesse arginarsi con la «trovata della tecnica», ovvero con la razionalità funzionalista. Occorreva costruire «modelli sicuri», sorretti da una teoria della realtà sociale e applicati secondo l'human engineering. Qualcosa di molto diverso dalla «buona forma» di designer intenti a guardare un mondo di oggetti isolati sempre da abbellire.
Era urgente mettere in discussione il processo decisionale bloccato nel triangolo politico-specialista-pubblico. Lo stallo dei soggetti del triangolo perpetua il più grave dei problemi, che egli esporrà in dieci tesi nel 1967 e che rappresentano un Leitmotiv del suo pensiero contro le velleità progettuali. Il politico e il pubblico, infatti, non esprimono mai una «volontà propria», mentre lo specialista o il Gestalter (colui che dà forma) «domina la scena» con soluzioni di «natura prevalentemente estetica», intuitiva, che alterano la realtà poiché semplificano ciò che è complesso. L'architetto o il pianificatore, però, eseguono e operano secondo un programma che sta bene al politico, il quale cerca risultati immediati per compiacere il pubblico che plaude al suo attivismo. L'alternativa democratica è esercitare il «rinvio ponderato» delle scelte, ovvero una pianificazione di parte (advocacy planning) per favorire chi verrà dopo e forse avrà bisogni diversi.
È l'idea che prefigura la città come opera-aperta, assimilata dalle teorie semiotiche di Eco e Barthes, in anticipo su alcuni temi dell'odierna progettazione open-source. In definitiva Burckhardt, per usare le sue stesse parole, non ci consegna una «solida teoria, ma soltanto alcune riflessioni», sagge e irriverenti: come quella che «passeggiare è una scienza», la «promenadologia»; o l'altra secondo cui «il paesaggio è un costrutto» che sta nella mente dell'osservatore. I suoi ragionamenti contribuiranno all'azione degli «architetti del quotidiano», quelli dei quali egli sognava la venuta (e a cui vanno le nostre simpatie).