Recensioni / Baldini, poesie non da pro loco

In modi e a scadenze imprevedibili, qualche nostra cittadina di provincia riunisce negli stessi anni un numero abnorme di artisti. È come se un lungo, segreto accumulo di energie estetiche trasformasse di colpo un fenomeno locale in un fatto rilevante per la cultura italiana. Così è accaduto a Santarcangelo, a metà ‘900, col cenacolo di poeti dialettali nel quale insieme a Tonino Guerra e a Nino Pedretti si formò Raffaello Baldini (1924-2005). I suoi versi, dal tardo esordio di È solitèri (1976) a Intercity (2003), avvolgono la Romagna di Guerra e Fellini in atmosfere beckettiane. Più che al cinema, con Baldini siamo a teatro, come conferma la Piccola antologia in lingua italiana uscita per Quodlibet a cura di Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati. Questi ventitré testi, tradotti dall’autore, sono i monologhi di tipi che nella loro solitudine sentono le voci. O forse il mondo che li circonda è davvero un ronzio di chiacchiere, specie di domande che s’inseguono per allontanare un silenzio senza risposte umane né celesti («e non sono capaci di star zitti, non se ne può più, / qualcuno che li perdoni, non c’è nessuno?», si chiede l’io baldiniano immaginando una confessione collettiva).
In ogni caso, qui un vuoto angoscioso genera la paranoia, cioè l’idea che tutto si rivolga a noi, e induce a trattare gli spettri come cosa salda. In Pronto! Pronto!, dopo aver perso una telefonata, un certo Renzi richiama parenti e amici per sapere chi lo ha cercato, e siccome l’inchiesta è vana progetta di allargarla al paese intero. Oltre, i portavoce di Baldini non si spingono. Il solo viaggio a cui credono è il sogno a occhi aperti che rende meravigliosi anche gli immediati dintorni «dove non succede niente», e dove si sfiorano appena nelle balere donne destinate ad altri. Con le loro orazioni tragicomiche, questi personaggi evocano una compagnia che di continuo sfuma. Perciò non terminano le frasi: per farsi forza devono cominciarne subito un’altra, reinventando incessantemente ciò che non prende mai un corpo definito. Anche perché il romagnolo, che aleggia sulle traduzioni, è troppo greve e insieme troppo vaporoso per diventare icastico.
Eppure in questa lingua degli anacoluti emotivi, nota Baldini nell’intervista in appendice, «si parla bene tutti»: permette la «posizione di riposo», mentre l’italiano costringe «sull’attenti». È un commento felice a un’opera fatta per dire quel che «succede in dialetto». Meno felice la postfazione di Benati, che cuce addosso a Baldini un vestito un po’ volgare. Scrive che «rinuncia al ruolo classico del Poeta» e che si oppone alla scrittura «standardizzata», ideologica, ambientata in «metropoli alla moda»: ma il ruolo è abolito da un secolo, e i bersagli polemici sono troppo convenzionali per rendergli giustizia. Tanto più che la critica, sedotta dal mix di colore popolaresco e lingua speciale, esalta indiscriminatamente i poeti dialettali, mentre nella narrativa trionfa oggi un esotismo paesano da Pro Loco. È da queste mode che l’autore va distinto; e anche dall’accademia degli stralunati targati Quodlibet. Lui sa che le cose "elementari" non si possono mai pronunciare, che ci si può solo girare attorno: «...le porcherie che diceva la Minerva, / che dopo si vergognava, / quando faceva l’amore col Dottor Tosi, / un campanello che suona e non c’è nessuno / C..) i soldi che ha tirato dalla finestra / Primo quando è fallito...». I nomi e gli aneddoti delle voci di Baldini affiorano a brandelli da un magone che si esprime pienamente solo quando tacciono.