L’editore Quodlibet continua a coltivare la propria
attenzione per il pensiero e l’opera di Giancarlo De
Carlo, riscoprendone testi editi e inediti e garantendo
l’accessibilità ai suoi scritti più importanti. Oggi è il
caso di La piramide rovesciata, originariamente
pubblicato da De Donato nel 1968.
La prima cosa che viene alla mente, avviando queste
considerazioni sul libro dedicato cinquant’anni fa
alla rivolta studentesca, è che il filo della riflessione
sull’insegnamento dell’ architettura – ancor più sulle
ragioni stesse dell’architettura in quanto disciplina
– e in generale sull’università e i suoi compiti,
sembra definitivamente spezzato: fino all’orrore
della ormai antica ‘legge Gelmini’, i suoi calcoli
astrusi sul numero di crediti, sulle classifiche delle
riviste, sul numero di articoli pubblicati per poter
aspirare a una idoneità a cui non seguiranno le attese
chiamate, su criteri incomprensibili di pur necessarie
valutazioni, su requisiti minimi e quant’altro può
servire per cancellare ogni reale autonomia e per
poter decretare l’invincibile vittoria dei burocrati e
dei ‘baroni’.
Che questa riforma abbia potuto invecchiare senza
essere sottoposta a una revisione radicale, malgrado
il susseguirsi di almeno quattro governi differenti,
di colore politico e di composizione, conferma
la desolante realtà che dell’università e della
formazione superiore in Italia non interessa davvero
più a nessuno. I burocrati del ministero e i rettori
sono contenti: non c’è motivo di andare a disturbare
il torpore diffuso nel sistema: di svegliare il cane che
dorme.
Mezzo secolo fa, la situazione era ben diversa.
L’Italia – ma in generale il mondo occidentale –
vedeva scemare l’ottimismo che aveva caratterizzato
gli anni della ricostruzione e il benessere crescente
offerto dal ‘miracolo economico’. Il dibattito
politico era stato contrassegnato da conflitti anche
violenti riconducibili a ideologie contrapposte
ben caratterizzate e le stesse geografie politiche
del mondo avevano conosciuto i rischi tremendi
della guerra fredda. Ma ciascuno sapeva qual
era il compito affidatogli e cercava di portarlo a
compimento.
Il Sessantotto rappresentava per i ceti lavoratori il
disvelamento di contraddizioni e disuguaglianze che
la crescita sociale ed economica aveva contribuito a
tenere nascoste; ma anche l’ordine ‘borghese’ iniziava
a scricchiolare. E più di tutto scricchiolava lì dove si
formavano le nuove generazioni: l’università.
L’università italiana alla fine degli anni Sessanta era
una realtà marginale, riservata alle classi più agiate
e alle formazioni scolastiche più convenzionali:
vi si accedeva solo con la maturità liceale, salvo
limitatissime eccezioni (i diplomati dei licei artistici
per le facoltà di architettura), con il risultato che il
numero degli studenti immatricolati era piccolissimo,
impossibile da paragonare con l’università di massa
esplosa negli anni Settanta. Se è qui legittimo un
ricordo personale, lo Iuav di Venezia contava nel
1968 meno di duecento nuovi iscritti a ogni inizio
di anno, che sarebbero diventati dieci volte tanto
cinque anni dopo!
Della Piramide rovesciata di Giancarlo De Carlo
va sottolineata in primo luogo la straordinaria
tempestività della redazione del volumetto
pubblicato nel 1968 (la copia di chi scrive risulta
acquistata il 13 aprile di quell’anno, pochi giorni
prima della data ufficiale di pubblicazione!)
dall’editore barese De Donato: una tempestività che
rivela l’urgenza della riflessione di De Carlo, come
se quest’ultimo avesse ben colto il carattere cruciale
della tempesta scatenatasi in quei giorni: in un testo
del 1969 ripubblicato nella nuova edizione della
Piramide rovesciata con il titolo Il pubblico della
architettura, De Carlo definiva, con giustificabile
esagerazione, la contestazione universitaria
“l’avvenimento più importante dopo la fine della
seconda guerra mondiale”.
De Carlo non sarà l’unico tra i professori di
architettura italiani di allora a capire l’importanza di
quello che stava succedendo. Lo capiva in qualche
modo l’intero consiglio di facoltà dello Iuav che
si riuniva diligentemente nella biblioteca della
Fondazione Querini Stampalia di Venezia durante
i mesi in cui l’accesso all’università era negato
dagli studenti in lotta; lo capivano docenti come
Leonardo Benevolo, Carlo Aymonino, Costantino
Dardi o Manfredo Tafuri che, in forme non ufficiali,
terranno aperti canali di comunicazione; lo capivano
anche personalità come Aldo Rossi e Paolo
Portoghesi, quest’ultimo preside a Milano, che si
spingeranno fino a essere colpiti dalla sospensione
dall’insegnamento quando la repressione governativa
cercò tardivamente e invano di riprendere il controllo
della situazione.
Ma nessuno, come De Carlo, si spinse fino a dare
forma scritta alla propria riflessione sulla situazione
presente.
Nella sua introduzione alla nuova edizione del
pamphlet, Filippo De Pieri osserva come il
Sessantotto di De Carlo costituisca la conclusione di
due decenni, iniziata con la fine della guerra, dedicati
ai temi dell’antiautoritarismo, del rapporto tra
architettura e potere, della capacità dell’architettura
di recepire le nuove problematiche sociali. Proprio il
1968 rappresentava un anno cruciale, che vedeva De
Carlo impegnato nello sfortunato progetto espositivo
della quattordicesima Triennale dedicata al tema del
‘Grande Numero’. Si sarebbe dovuto trattare di una
articolata riflessione sull’ architettura nella moderna
società di massa alla quale partecipavano protagonisti
cruciali del mondo, come gli Smithson, Arata Isozaki,
Archigram o Shadrach Woods, che, come ha ben
ricostruito Paola Nicolin nel suo Castelli di carte,
veniva vanificata e distrutta proprio da quella rivolta
a cui De Carlo aveva dedicato la sua simpatetica
attenzione pochi mesi prima.
Le occupazioni delle facoltà di architettura durante
il 1968 rappresentano per De Carlo l’occasione per
contestare quella idea di urbanistica “di monumenti
segni significativi in una agglomerazione informe
e insensata” che Aldo Rossi aveva formulato poco
prima nel suo Architettura della città, alla quale
contrapporre un processo pianificatorio critico, non
necessariamente destinato a “rafforzare il sistema”,
quanto piuttosto ad accelerare “la restituzione di
capacità creativa alla collettività”, trasformando
l’azione progettuale in un’azione collettiva, della
quale il pubblico sarebbe stato protagonista e non
destinatario, proprio come in quegli anni veniva
chiedendo inascoltato Yona Friedman.
La critica che De Carlo rivolge al sistema
universitario italiano è spietata. La sua struttura
autoritaria non può più celare il suo ruolo
essenziale di “strumento di controllo ideologico e di
conservazione del potere” e di produttore dei “quadri
per la gestione delle nuove strutture produttive e
dello Stato”. La sua organizzazione gerarchica delinea
un sistema chiuso dove ai docenti, agli assistenti
e agli studenti sono assegnati compiti precisi e
territori tra loro impermeabili. Le occupazioni
delle sedi universitarie a partire dal 1967 avevano
portato al disincanto degli studenti che, come diceva
un documento torinese, credevano “di andare
all’Università per imparare la storia, il diritto, la fisica,
la medicina, e invece hanno imparato soprattutto a
comandare ed ubbidire”.
L’adesione di De Carlo alle logiche ‘assembleari’ e al
rifiuto di qualsiasi delega rappresentativa è totale
e appassionata: e rappresenta l’antidoto a qualsiasi
compromesso pronto a vanificare l’obiettivo di
un radicale riposizionamento sociale del lavoro
dell’architetto nel contesto massificato del ‘grande
numero’, nel quale alla architettura era chiesto di
scordare il ‘pastiche professionale-artistico’ al quale
sembrava condannata, per diventare finalmente
scienza, scienza sociale, nel solco di quella idea di
design che prima Moholy-Nagy e poi Kepes avevano
formulato. Il tempo nel quale De Carlo compitava le
sue appassionate argomentazioni è un tempo ormai
sideralmente lontano. L’università italiana è stata
irreversibilmente cambiata dalla liberalizzazione degli
accessi. Le sette scuole di architettura fondate nei
primi decenni del Novecento si sono moltiplicate
per molte volte, distribuite nelle diverse province
del paese. Del ‘pastiche professionale-artistico’ non
sono rimaste tracce, né della capacità assembleare
di articolare problemi e soluzioni. Delle migliaia di
architetti diplomati sembra che l’Italia non abbia più
una idea di cosa farne. L’università italiana è divenuta
davvero di massa, ma non ha saputo diventare
l’interprete dei problemi e delle aspirazioni collettive.
La ‘piramide rovesciata’ rimane sullo sfondo, come un
lacerto archeologico tra le cui rovine è forse ancora
utile cercare una risposta ai problemi insoluti di oggi