on sono molti gli artisti che scrivono sul sistema del contemporaneo, sullo status delle discipline
espressive, sui propri colleghi, oppure sulle modalità in cui l'arte
viene manipolata dalle grandi kermesse espositive. Tra questi Luca
Bertolo, di cui Quodlibet ha pubblicato I baffi del bambino (introduzione di
Davide Ferri, pp. 232, € 22,00), che raccoglie
gli scritti realizzati nell'arco di un ventennio. È una lettura del sistema dell'arte dal
suo interno, fatta con un acume realista che
rifugge ogni intellettualismo, schierandosi
su questioni tuttora aperte, come la scomparsa della pittura, il dissolvimento della critica
o il marxismo di maniera di molti curatori.
Il libro è diviso in quattro sezioni organizzate per argomento, benché i temi ritornino
spesso sottotraccia consentendo di vedere in
controluce il contesto culturale e professionale entro cui l'artista stesso si muove (Bertolo, cui il Mart di Rovereto ha dedicato una significativa personale negli scorsi mesi, è artista particolarmente attivo sulla scena italiana). Vero e proprio leitmotiv, l'inattualità della pittura e, in generale, di tutte le discipline
che hanno a che fare con la fisicità della materia, ritenute da molti «un modo di comunicare obsoleto, che presto sarà soppiantato
da nuovi linguaggi», poiché l'arte contemporanea «ci ha introdotto in maniera nuova, radicale, al mondo delle idee, abituandoci al fatto che esse siano una
materia prima sufficiente per
creare delle opere». Il dubbio di
Bertolo è però radicale: «possono
i concetti sostituire la messa in
forma della materia, e cioè quel
processo originario e altamente
simbolico presieduto in larga misura dalla nostra parte irrazionale»? La risposta è quella di colui
che «continua a dare credito alla
pittura, mentre - come scrive in
appendice al volume Tiziano
Scarpa - quest'epoca le ha voltato le spalle».
Gli scritti dedicati agli artisti
(sia storicizzati come Philip Guston, sia contemporanei quali Flavio Favelli o Fabrizio
Prevedello) sono tra i più sapidi del libro, sia
perché è possibile leggere i processi creativi
a partire dagli occhi di un collega, sia perché
sono l'occasione per allargare lo sguardo con
tanti pensieri laterali, che danno l'idea di come l'opera - e la sua interpretazione-sia fondamentalmente una pratica di (s)composizione. Bertolo si interroga poi sulle aspettative dell'opera «dispositivo politico» condivise
dai curatori politically correct, che spesso ignorano il lavoro «fine a se stesso», e dagli artisti
che conducono la propria ricerca non interagendo direttamente con la realtà. Nel saggio
su Gian Carozzi, Bertolo analizza invece l'inadeguatezza del presupposto della «coerenza», che la critica pretende dall'artista. Per
l'artista, scrive Bertolo, è fondamentale piuttosto la «condizione d'insicurezza che precede la creazione», necessaria «palestra epistemologica».