Recensioni / Scomponendo Magrelli

«Se amore è la distanza che ci chiama/ e insieme la paura di varcarla». Sono gli ultimi due versi degli undici endecasillabi in forma di ipertesto, La lettura è crudele, che Valerio Magrelli ha pubblicato in Il sangue amaro (Einaudi, 2014). La parafrasi della poesia è semplice e strana: l’io lirico osserva il destinatario – la moglie dell’autore, per inciso – che, letteralmente, sprofonda nella lettura di un libro; l’anima sembra aderire alla zona più inaccessibile del corpo. La donna legge «in una lontananza irraggiungibile», mentre l’io si sporge su un metaforico «ponticello» che, «atterrito e remoto, separato», anela al fondovalle del diverso-da-sé e segna così il confine con il mondo e l’alterità, il limite oltre il quale non è possibile andare. E qui avviene l’incanto: l’amore – il desiderio di fusione, di essere uno, di essere «sradicati» – è anche la «distanza» che convoca gli innamorati, i quali si mantengono però nella «paura» di varcare la soglia dell’identità. Ma le sorprese non finiscono. Il testo-matrice, scabro ed essenziale, genera a propria volta una poesia a sé stante che ha per titolo ogni singola linea degli undici endecasillabi: undici liriche, insomma, che fungono da rapidi commenti (una sorta di scolî) ai versi, con l’idea di approfondire ulteriormente il problema metafisico-relazionale che la lettura reca. «Dove sei?», o meglio «perché non mi porti con te?» là dove sei, mentre leggi, «dentro quel dentro» del tuo tu dal quale il mio io è escluso… In questa lotta tra il «confondersi con la creatura amata» e la «forza di gravità che ci governa», nell’«incomprensibile amore della paura» dove «tutto si confonde/ per generare nostalgia», rimane il desiderio di esplorare ed essere parte del «fondo incantato del non-io», il poter finalmente e definitivamente «essere strappati a noi stessi» per arrivare nel luogo in cui la bellezza (kalòn) ci ha chiamati (kalèin).
All’analisi di questo poemetto è dedicato il libro di Arnaldo Colasanti, Polittico del Sangue amaro. Lettura della poesia di Valerio Magrelli (Quodlibet, «Elements», pp. 144, € 12), centrato sul pendio di una critica oracolare che tenta di restituire il disvelamento della verità delle cose attraverso l’interpretazione più riposta del testo poetico. Quello di Colasanti è, infatti, un discorso aperto con l’opera magrelliana sulle grandi dicotomie dell’esistenza (ordine/disordine, identità/alterità, esperienza/simbolo), filtrate dalle etimologie fenomenologiche della tradizione classica: «La poesia di Magrelli è pensante, non tuttavia perché ermeneutica: quanto per uno straordinario sottile prammatismo di fondo che permette a ogni immagine, come a qualsiasi sonorità, di trasformarsi in una potente architettura del senso. Il lavoro critico che ne deriva è la simmetrica costruzione di una macchina esegetica». Tale struttura architettonica nata dalla reduplicazione semantica del sentire poetico rivela, appunto, il polittico della tecnica filologico-letteraria prediletta da Colasanti: l’«auscultazione del verso», ossia l’ascoltare intimo – talora timbrico – dei moti dell’animo e della coscienza che la poesia suscita a tutti i livelli (fisico, psicologico, ulteriore).
È un metodo forse a metà tra le unità semiologiche di Barthes e le diffrazioni e scomposizioni di Derrida: la parole soufflée che è contemporaneamente «parola suggerita» e «parola sottratta». Purificazione del Dichtung (l’utopia della lingua di Barthes o la poésie pure di Valéry) o anche «santificazione della poesia» – è una definizione che Marco Sonzogni ha utilizzato per Heaney –, nella quale il viaggio (trobadorico) della lirica raggiunge un ipotetico paradiso (e dunque l’alterità magrelliana potrebbe coincidere con la Poesia stessa in forma di donna) «perduto» e ritrovato, capace di esternare, secondo Colasanti, l’«estrema speranza», il «sogno dei sogni» oltre «il sangue amaro del linguaggio che parla e ci parla». C’è, insomma, un varco (molto montaliano) da superare. E il poeta e il critico, dioscuri del segno/sogno, lo riflettono entrambi, come in uno specchio deformato. In una pala d’altare.