Deleuze sosteneva che i filosofi creano
concetti. Si potrebbe infatti ricostruire
una sorta di mappa all’interno del cammino del pensiero occidentale, tale da
vedere procedere affiancati i filosofi coi
concetti da loro pensati: per esempio,
Platone e l’idea, Aristotele e la forma.
Quest’ultimo libro del filosofo napoletano Aldo Masullo presenta fin dal
titolo un nuovo concetto, l’arcisenso. La
prima parte di questa parola, arci-, ricalca la greca arché, che significa il principio costitutivo, che non solo dà inizio a
una funzione ma la sostiene nel durare.
Il termine principio non va comunque
inteso in senso piattamente cronologico.
L’arcisenso è il sentire originario che,
sentendo se stesso (sensus sui), fa vivere
ogni emozione propriamente umana. È
un po’, se si vuole, rubando la metafora
al Platone della Lettera VII, come accade
con la fiamma, che una volta innescatasi, a partire da una scintilla iniziale si
propaga. La scintilla è come il principio
costitutivo della fiamma, la sua «essenza». L’arcisenso insomma è l’atto in cui
ogni fenomeno emozionale ha la sua
radice. Volendo restare entro i margini
della paratestualità, il completamento
del titolo, Dialettica della solitudine, conferma il senso eminentemente politico
che Masullo ha inteso dare a queste sue
riflessioni. Se è vero, infatti, secondo il
magistero hegeliano, che la filosofia è
sempre «il proprio tempo appreso col
pensiero», questa nostra modernità
avanzata sfida l’intelligenza morale con
la crudezza della solitudine, che i vincoli
sociali forti dissolvendosi non più compensano o coprono e il governo delle
collettività, sempre più spersonalizzato,
rende intollerabile.
Un discorso potentemente inaugurale della modernità è quello del
cogito cartesiano. Credo valga la pena,
qui, ripercorrere quelle righe (seconda
parte) del Discorso sul metodo, nelle
quali Descartes ricorda la circostanza in
cui quella riflessione nacque. Il filosofo
francese si trovava in Germania, essendosi arruolato nelle truppe del Duca
Massimiliano di Baviera (siamo agli inizi
della Guerra dei Trent’anni), «bloccato
dall’inverno – scrive Descartes – in un
quartiere dove, in mancanza di qualunque conversazione che mi distraesse, e
per fortuna anche di preoccupazioni o
passioni che mi turbassero, me ne stavo
tutto il giorno da solo, chiuso in una stanza riscaldata, e là avevo tutto il tempo di
restare immerso nei miei pensieri». Tutto
il giorno da solo, chiuso in una «stufa»
a riflettere – la famosa stufa in cui Descartes elaborerà il concetto del cogito.
Non è un caso che Descartes si
riferisca alle passioni come a una condizione di turbamento – e turbamento
proprio dell’essere esistente che l’uomo
è. Noi, dice Masullo, abbiamo imparato a
costruire insieme modelli di convivenza
sempre più complessi e soprattutto sistemi potenti di comunicazione. Sul piano
logico-semiotico dunque gli «scambi»
sociali sono ogni giorno più intensi, e
le culture si fanno sempre più ricche
di significati. Perciò sempre più forte
è il discorso scientifico, fondato sulla
manipolabilità dei simboli convenuti, e
sulla riproducibilità dell’esperimento,
all’interno della condizione «asettica»
di un laboratorio. Ma c’è l’altro piano,
il piano delle «passioni» che Descartes
cerca di tenere il più possibile lontane,
perché non gestibili all’interno di un
universo di discorso meramente razionale. Non numerabili né riproducibili, in
effetti irripetibili, le passioni, o meglio,
come Descartes precisa, le emozioni
sono incomunicabili.
Ora, quel che abbiamo individuato
come logico-semiotico è per Masullo
il piano del «vivente», mentre il piano
emozionale è il «vissuto». Qui, per mag-giore chiarezza, conviene riferirsi a un
altro concetto su cui il filosofo napoletano lavora da anni: il «patico». Elaborato
per primo da Viktor von Weizsäcker,
questo concetto assume nel pensiero di
Masullo una connotazione originale, in
quanto, risalendo all’origine greca del
termine, pathos, da una radice del verbo
paschein, se ne assume il senso specifico
di vissuto, inteso come ciò che si patisce,
non mera sofferenza, piuttosto ciò che
si prova. Il verbo vivere, infatti, se usato
transitivamente, come per esempio
nell’espressione «vivere un’esperienza»,
significa il provare consapevolmente
una data situazione. Questa consapevolezza però non si attua su un piano
meramente intellettuale. Vivere qui è
sentire, avvertire di sentire, cioè riferire
a sé il sentire. Questa riflessività della
sensibilità è l’apertura della coscienza al
vissuto incomunicabile, che sfugge alla
presa di qualsiasi convenzionato sistema simbolico. Radicato nel patico, sia
chiaro, non è solo il vissuto dell’emozione, ma qualsiasi vissuto, anche intellettuale o pratico o artistico. Giambattista
Vico per esempio una volta ha parlato
di «divino piacere» nel pensare il mondo
storico e un’altra volta del «forte dolore
provocato nella mente dalle sfacciate
menzogne». In verità non si dà nulla di
«spirituale» che al fondo non sia patico.
Perciò il vissuto non accidentalmente,
ma intrinsecamente è incomunicabile,
e va propriamente detto incomunicativo.
Il mio dolore, la mia gioia, qualsiasi mia
passione o preoccupazione, passion o
soin, per usare i termini cartesiani, sono
e restano unicamente miei. Ne potrò conoscere sempre e solo inadeguate traduzioni simboliche e riduzioni concettuali,
grazie a cui l’altro può avere notizia che
io soffro o gioisco, ma mai potrà provare
la mia sofferenza o la mia gioia. Come
Husserl prima e Merleau-Ponty poi osservano, io sento il tocco dell’altro sul
mio corpo, ma non posso sentire il suo
sentirsi toccarmi o il suo sentirsi toccato.
Di qui si avvia a scoprirsi il senso complesso della dialettica della solitudine. Si
è soli perché la propria coscienza, che
si è destata per la scintilla di almeno
un’altra coscienza, tuttavia non può
identificarsi con essa. La soggettività,
come si è originata nella relazione, a
essa sempre anela ma, data l’incomunicatività del sentirsi, non può mai più
ritrovarsi nella pienezza della prima
relazione. La comunione resta soltanto
un orizzonte verso cui ogni soggettività,
segnata dall’iniziale relazione perduta,
irresistibilmente tende. A questo punto
si delinea un’antropologia tragica. Gli
uomini, osserva Rousseau, incattiviscono, presi nella vissuta contraddizione tra
il desiderio radicale e la sua impossibile
soddisfazione, e si perdono nell’idolatria
della propria persona e nella contesa
senza tregua perché essa a tutti i costi
primeggi sulle altre. Così la guerra, in
tutte le forme guerreggiata, compresa
la politica, domina senza pietà la vita
degli uomini.
Va infine osservato che la riflessione di Masullo aiuta nella comprensione
dell’agire artistico. In questo si fa visibile
la tensione tra l’incomunicatività del
vissuto e la genialità nell’inventare strumenti linguistici che, innovativi rispetto
ai precedenti, non rompano con essi,
bensì li trasformino, consentendo così di
comunicare non certo l’incomunicativo
dell’artista ma gli umori che dal suo
vissuto, grazie a quella trasformazione,
sono penetrati nella cultura collettiva.
Di ciò gli esiti più alti appaiono schille-
rianamente opera di grazia.
Non è un caso se lungo tutto il libro
di Masullo la riflessione sull’essenza
dell’estetico sia come una sorta di filo
rosso che tiene insieme le sette «stanze», più una, attraverso cui il pensiero
dell’arcisenso si snoda, articolandosi e
riverberandosi su se stesso: l’appendice
conclusiva, infatti, è come se consentisse
al lettore, giunto alla fine del libro, di
rileggerne la riavvolta sequenza.