Difficile dire che cosa sia
ormai la critica letteraria.
Una volta era la spina
dorsale della saggistica
e si trovava nelle
grandi collane degli
editori principali, e non solo si rivolgeva
alle scuole (licei e università),
ma esprimeva giudizi, dettava indirizzi
al gusto, orientava il lettore colto
o coltivabile e, quando non si rattrappiva
nell'ipertecnicismo o nella
prosopopea di certa accademia, proponeva
addirittura modelli di civismo
e di buona comunicazione in
italiano. Penso a molti autori, italianisti
e no; penso - per fare un nome
- a un Antonio La Penna, che insegnava
la letteratura latina, parlava di
poeti e prosatori latini e però ci insegnava
anche altro. La critica arrivava
a essere una specie di intrattenimento
e di divertimento intellettuale, e
infatti popolava le librerie di ingegneri
e direttori di banca.
Ma poi il liceo e l'università si sono
inariditi, gli editori principali si
sono buttati su una saggistica eterogenea
e la critica letteraria, uscita
dai circuiti della pedagogia e del dibattito
sociale, si è arroccata nei dipartimenti
degli atenei, sempre più
sola, sempre più monologica, sempre
più disinteressata a intervenire
nelle vite dei lettori. La maggior parte
dei libri di critica letteraria che si
mettono sul mercato - e qui non
penso più solo all'Italia - è molto
specialistica, spesso nata per circuiti
ristrettissimi, ridotta a pubblicazione
per concorso. Andrà anche in libreria,
ma è destinata a languire nel
buio. Perché non è solo specialistica
(per lo specialismo, che può essere
necessario, bastano le riviste, non
occorre comporre volumi): denuncia
una tremenda, sempre più purulenta
spaccatura tra il mondo dei libri
e il mondo delle persone. Nessuno
stile, nessuno slancio, nessun
grande interrogativo.
Le eccezioni, ovviamente, non
mancano. E una è rappresentata dal
libro di Franco D'Intino, professore
di letteratura italiana alla Sapienza,
La caduta e il ritorno. Cinque movimenti
dell'immaginario romantico leopardiano,
pubblicato da Quodlibet.
Qui hai stile, slancio, grandi interrogativi,
e anche qualche risposta. Ponendo
il fuoco del discorso nell'analisi
di una sola poesia, A Silvia, la dimostrazione
prende le più impreviste
svolte e dal corpo dell'analizzata,
quella Silvia "caduta", escono altri
corpi e fantasmi e proiezioni, e Silvia
alla fine di un'avventura interpretativa
vertiginosa, che però mai sbanda,
non è solo Silvia, ma si rivela condensazione
di immagini molteplici,
rappresentando la stessa umanità
originaria e una purezza che sceglie
la fine per non contaminarsi.
Questo libro è destinato a far
scuola e a essere largamente citato
nelle bibliografie della ormai quasi
immonitorabile leopardistica. Ma
voglio aggiungere che questo libro
dovrebbe diventare un riferimento
anche fuori dai giri degli esperti.
D'Intimo, che a Leopardi ha dedicato
la vita (scrivendone, allestendo edizioni
delle sue opere, promuovendo
la prima traduzione in inglese dello
Zibaldone, coordinando le più varie
iniziative), rivolge al suo autore la
cura più intelligente e appassionata:
capire come pensa. Per capire
come un autore pensa bisogna leggere
molto. E D'Intino dimostra di
aver letto moltissimo. Lui stesso ci
racconta che questo lavoro si è formato
nel corso di una ventina d'anni.
Ha letto anzitutto ogni riga di
Leopardi, compresi gli scritti puerili,
da una stupenda citazione dei
quali parte il discorso. E poi ha letto
molto del Settecento, dell'Ottocento
e del Novecento, quello che Leopardi
cita ma anche quello che, non
citato da lui, a lui rimanda.
Proprio la varietà di letture costituisce
una delle bellezze del libro, e
ritengo la proposta più originale di
D'Intino critico: il modo non genealogico
di leggere le fonti. D'Intino rifiuta
decisamente l'intertestualità
derivativa, quella da imitatio umanistica,
che certo a un classicista come
Leopardi si può e si deve talvolta applicare,
ma che rischia di trattarlo da
epigono, quando è un grande iniziatore.
E così ne esce un Leopardi europeo,
uno che, non meno di Goethe o
di Coleridge odi Darwin odi Marx, ha
puntato gli occhi su una grande svolta
antropologica, sull'erompere di
una nuova modernità e ha avvertito
contro la dissoluzione ultima di una
vitalità primigenia e contro il governo
delle macchine.
Un secondo aspetto del libro - ma
dovrei dire dell'autore - che salta agli
occhi è una sbalorditiva disponibilità
all'ascolto, e capacità di comprensione:
comprensione come atto esegetico
e come filosofia dell'inclusione. Il
discorso procede tra anfratti e cunicoli,
magnetizzando senza sosta parole
chiave, attirate perfino da contesti
dissimulanti, riconoscendo affinità
lontane, consacrando convergenze
di pensiero tra personalità e
lingue diverse. Spiega, così, Leopardi
con altri autori, ma spiega anche altri
autori, pure successivi, con Leopardi.
D'Intino si è sempre impegnato a
sostenere che l'opera di Leopardi appartiene
al romanticismo europeo e
che lì occorre finalmente collocarla.
Con questo saggio non solo porta a
compimento il suo impegno, liberando
la critica di Leopardi da pregiudizi
e paraocchi che impedivano
di intendere la natura romantica del
suo classicismo, ma presenta anche
unvero e proprio saggio sul romanticismo,
attraverso definizioni illuminanti.
Mi limiterò a citare queste poche
righe: «un'immaginazione che
non si appaga del già dato, un'energia
vitale che oltrepassa l'impedimento
che la inibisce, e scongiura la
realizzazione per poter reinnestare
sempre di nuovo l'azione» (p. 56).
Letto La caduta e il ritorno, capiamo
di più di molte cose: di Leopardi,
del nostro mondo, del lavoro letterario,
della professione del critico. Solo
due appunti per chiudere. Forse occorreva
un titolomeno chiuso. E forse
- lo osservo ben sapendo quali e
quanti doveri imponesse la scrittura
di un simile tourdeforce -, occorreva
limitare la lunghezza delle note e, soprattutto, il numero dei riferimenti
bibliografici. La lettura sarebbe avvantaggiata.
Ma soprattutto: un libro
così originale nel metodo e nella
struttura e così capace di indicare
nuove vie agli stessi professionisti e
- ci si augura - a chi questa professione
ha ancora il desiderio di intraprendere
meritava di farsi avanti da
solo sul palcoscenico, chiedendo al
coro di quietarsi per un momento.