Recensioni / In-cantando la polis: il bios orphicos tra mito e tragedia

Rileggendo Orfismo e tragedia nella nuova edizione Quodlibet si ha la forte impressione che questo scritto circoscriva l’ambito degli studi di Gianni Carchia sull’estetica antica, proseguito con Estetica ed erotica e L’estetica antica, in cui sono enucleati i temi della “politica” filosofica di uno dei più importanti e appartati filosofi di fine del XX secolo.
Grande studioso di estetica, critico letterario, erudito conoscitore dell’opera di Walter Benjamin, Odo Marquand, Reiner Schürmann, come di Lowith, Gehlen e Blumemberg, – Carchia esempla in questo saggio del 1979 le coordinate di uno spazio originale di ricerca: quello che si stende tra la mitologia religiosa dei greci e l’espressione dell’arte nei generi della commedia e della tragedia.
Come scrive Monica Ferrando nella prefazione, questo scritto sul mito trasfigurato testimonia la presenza di forme in cui l’arte conserva il passato mitico da cui proviene. In questo movimento dell’autonomia l’espressione lirica e la tragedia si emancipano dal mito e dai riti sacrificali, ma non divengono sopravvivenze di un oscuro passato pre-razionale, bensì elementi abissali del logos che li comprende senza poterli dominare.
Da qui, la nozione di “estetica antica”, reputata problematica ed espunta dal lessico filosofico nella valutazione dell’arte, trova riscontro nelle tracce fenomenali della mistica iranica e greca e della sofia orientale. Questa soglia archeologica emerge dalle grandi ricerche di Giorgio Colli sulla sapienza greca e sul “dionisiaco”, ma trova in Carchia la massima estensione nell’intreccio con l’antropologia e l’épisteme pre-classica.
In realtà la ricerca non si limitava a rinvenire, al di sotto delle riduttive interpretazioni dialettiche dei fenomeni estatici e mistici, lo strato pre-testuale e immaginale delle pratiche di culto connesse alla sapienza, all’orfismo e all’espressione ditirambica greca. L’elemento più originale e più denso consisteva invece nella scoperta di una essenziale connivenza tra un’arte della vita che la sofia greca alimentava e l’esibizione di modelli poetici e letterari che quell’arte confermava.
L’estetica antica era infatti un’erotica che la metafisica moderna ha poi ridotto alla valutazione degli oggetti d’arte tramite il gusto – mentre la soglia eccessiva e “patetica” di quell’arte antica diveniva il fantasma della forma di vita che la modernità ha continuato a catturare e ad imporre.
Descritta in questo modo però quest’apertura non rende ragione dell’estesa ricerca di Carchia, tesa comunque a ritrovare una piega originaria nei fenomeni filosofici e artistici: che sia la lettura attenta ai limiti del dettaglio significante nell’importante libro su Benjamin, Nome e immagine, oppure l’introduzione a Dai principi all’anarchia di Schürmann, il saggio Kant e la verità dell’apparenza, o i molti articoli sulla «Rivista di Estetica» e su vari giornali, sempre si percepisce uno stile che potremmo chiamare di scrittura-pensiero.
Sembra essere questa la cifra espressiva di uno dei migliori interpreti dell’ultima modernità per acutezza di sguardo e rigore filologico, nel confronto con filosofi, scrittori e poeti la cui posizione nella cultura era fino a pochi anni fa marginale e liminare.
In questo saggio la provenienza e il distacco dell’orfismo e della tragedia antica dal mito e dal ditirambo acquistano importanza nella differenza storica e concettuale tra l’espressione lirica e la circoscrizione del mito ufficializzata dalla religione olimpica.
Scrutinando le interpretazioni dell’orfismo che lo hanno fatto appartenere alla temperie mitica esiodea e, all’opposto, all’espressione di un logos che aveva rotto con le pratiche orgiastiche e l’ebbrezza dionisiaca, Carchia assegna all’orfismo la posizione mediale tra mito e logos, laddove una pratica e un’arte sostituiscono i riti sacrificali.
Riprendendo la riflessione di Colli sulla sapienza che è autodissoluzione del mito senza ancora divenire filosofia, Carchia individua nella contraddizione di Apollo e Dioniso «anziché nella coincidenza estetica proposta da Nietzsche», la soglia orfica dell’espressione lirica. Questo movimento che esaurisce il rito sacrificale con una violenza altrettanto intensa ma traslata sul piano dell’espressione e dello stile di vita, è stata inizialmente indagata da Bachofen nel principio del diritto materno, e da Erwin Rohde alla fine del XIX secolo nel culto delle anime e nella dottrina dell’immortalità dell’anima.
Immortalità mistica e tempo delle cosmogonie sono gli elementi della pratica orfica che è il luogo rituale e di espressione lirica che inaugura una temporalità discontinua sia rispetto alla ciclicità mitica che alla linearità della storia profana.
Ciò perché il sapere della finitudine riverbera nell’esigenza di riferire la limitata esperienza del tempo all’aion eterno di Chronos. L’effetto dell’immane confronto (rielaborato poi dai romantici), è la costruzione di una memoria che non è più la facoltà del continuum psicologico bensì l’organo integrale della discontinuità. Mnemosyne è sospensione del decorso della storia in cui opera un’eternità “intemporale”.
Sul piano economico e sociale la temperie orfica investe la polis in due epoche successive. Nella prima, agli inizi del VI secolo, la costituzione del diritto è fondata sull’esigenza di salvezza; nella seconda, tra il V e il IV secolo, inizia la differenza tra l’ambito dell’oikonomia e l’ambito della crematistica e la comparsa del mercato regola l’elemento razionale-astratto del credito in cui prevalgono i tratti mistici di rifiuto del mondano.
Sul lato della tragedia la conquista dell’autonomia espressiva non va riportata al “fondo rituale” precedente all’espressione artistica che si dispiega nel V secolo, ma all’esigenza di comprensione del mito che caratterizza la realtà secolare delle poleis. Il valore politico della tragedia era stato evidenziato da Bachofen che aveva chiarito come le interpretazioni in chiave dionisiaco-rituale erano state assegnate da esegeti “disinvolti” (Beumler e le disastrose interpretazioni irrazionaliste), che avevano ridotto l’espressione tragica «ad una forma ulteriore e definitiva del culto ctonio dei morti e degli eroi religiosi» (p.54).
D’altra parte l’interpretazione economico-politica della tragedia manca del tutto il senso perché non coglie il fatto dell’autonomia della forma drammatica e schiaccia l’espressione tragica sulla produzione, inesistente nella Grecia antica.
La tragedia non può dunque essere interpretata come “canto dei capri”; si tratta invece del “canto per un capro espiatorio” in cui è in gioco come per l’orfismo la dialettizzazione della tradizione sacrificale. La sostituzione del sacrificio umano con la sua messa in scena è l’operazione archetipa e funzionale che introduce l’ironia tragica nel dispositivo sacrificale e ne attua lo smascheramento. La finta innocenza del sacrificio viene dimostrata e denunciata, benché «la morte dell’eroe riafferma il primato del destino e del ciclo di vendetta» (p.66).
Dal limite dell’interpretazione nietzscheana della tragedia proveniente dall’ebbrezza, e dal limite della lettura “etnologica” per cui essa avrebbe fondamento nel culto dell’eroe, si schiuderebbe il luogo del tragico: l’autonomia del dramma, cioè del fenomeno agonale-conflittuale che decide della scena tragica e della forma assunta dalla messa in scena.
La seconda piega della tragedia, il movimento conflittuale del protagonista e di un antagonista che sposta l’interpretazione canonica dal dramma del coro e dell’eroe verso un principio di intelligibilità più marcato e denso, è stata elaborata da Holderlin nello scritto del 1799 Grund zum Empedokles. La morte del filosofo non è il contenuto del sacrificio ma la rivendicazione di una presa di posizione; tuttavia a questa si oppone un enigmatico Gegner, un antagonista, che afferma l’intelletto e la capacità di mediazione rispetto alla permanenza del destino di morte. Ma ancora: non si tratta qui di comporre la logica del sacrificio con i decreti eterni del fato, bensì di giocare nella figura di Empedocle i due poli dello “stato di destino”, – l’aorgico, il caos primordiale, e l’organico, l’organizzazione logica della prassi. Si tratta di «una nuova mediazione degli estremi, non più sacrificale ma, al tempo stesso, non più tragica».
Oltre a ciò nelle riflessioni di Holderlin sulle traduzioni sofoclee, l’agone è qui esemplato nei due poli del mondo ellenico e del mondo esperio che si incontrano in traduzioni che sono invenzioni poetiche lontane dai tentativi di “letteraturizzare” i testi tragici. L’effetto poetico della più alta delle operazioni creative secondo i romantici è la fuoriuscita dalla dialettica del tragico a partire da una cesura.
È la discontinuità temporale agìta dall’antagonista, Tiresia o il Gegner che costituiscono i principi di invenzione formale della sfera tragica; «La loro posizione nello schema agonale corrisponde al punto di vista ‘eccentrico’ del poeta» (p.68).
Il rovesciamento, la sconnessione, lo squilibrio in ogni equilibrio, l’opposizione e la rivoluzione sono i momenti dello scontro tra Ellade e Occidente, scontro che ristabilisce l’integrità di una fuoriuscita dalla legge. Che infine questo andamento della sfera drammatica sia stato inviso a Hegel, quando insiste sulla dialettica della norma e dell’etica nell’esame della tragedia, è il sintomo più evidente dell’impossibilità per la coscienza borghese di reperire la qualità intrinseca della tragedia. Questa negazione avrebbe condotto alla considerazione della scena tragica antica come un residuo letterario della realtà della polis. Avrebbe cioè confinato la libertà nella forma di una retorica e l’avrebbe avvinta alla convenzione, perdendo così quel momento «[…] un attimo appena – nel quale nell’antichità, la libertà della forma si è dischiusa, in mezzo fra l’asservimento alle antiche potenze del mito ed il nuovo addomesticamento della storia» (p.81).
Proprio riferendosi alla polis occorre menzionare anche il Dialogo con i morti, l’incendiaria postfazione a cura di Julien Coupat che chiude Orfismo e tragedia. Dialogo con i morti ha il merito di restituire – ed approfondire – l’intimo legame che stringe il saggio di Carchia al rispettivo contesto politico, illuminando così un sottosuolo clandestino abitato da una «generazione di “emarginati”» (p.85) che dialoga attraverso le riviste L’erba voglio di Fachinelli, An.Archos di Flecchia o Invariance di Camatte.
Leggere Orfismo e tragedia<7i> da questo angolo prospettico, come propone Julien Coupat, consente di individuare quelle strategie di fuga o defezione tanto urgenti «per il presente, per il futuro, per sempre» (p.85). Ed è su questo primo aspetto che Coupat sottolinea un’importante differenza tra la ricerca di Carchia e quella condotta negli stessi anni – ed ugualmente rivolta all’antica Greca – da Foucault. Se agli occhi di Foucault l’antichità greca continua ad apparire un «profondo errore», per Carchia la storia della grecità dev’essere benjaminianamente spazzolata contro pelo. Radicalizzando l’archeologia foucaldiana Carchia intende così ritrovare quei luoghi nascosti o quelle vie alternative attraverso cui è davvero possibile chiarire la storia d’Occidente come «storia di un errore». L’orfismo è perciò uno di questi «nomi propri che vanno intesi, dunque, come se fossero eventi» (p.86); sentieri e vie di fuga che la storia dei vincitori ha tentato di occultare e nascondere o, proprio come nel caso dell’orfismo, di bruciare e seppellire. E a ragione sostiene Coupat, dal momento che «l’orfismo è un nome in codice della destituzione di un’intera civiltà nel momento stesso in cui questa si istituisce» (p.91). Per dirla con Daniel Heller-Roazen, l’orfismo è la prima delle lingue oscure, quella che si articola come radicale alternativa alla costruzione del logos ateniese senza per ciò stesso ricadere nel gorgogliare del mithos. Meglio ancora, l’orfismo è la prima forma della destituzione in quanto si propone come secessione assoluta nel momento stesso in cui l’intera Grecia si adopera all’edificazione del fondamento, all’istituzionalizzazione dell’arché nella sua indistinzione di origine e comando.
Si può ora comprendere la radicale differenza tra Carchia e Foucault: non si tratta di tornare all’orfismo per «smascherare il perpetuarsi dell’oligarchia dietro al fantoccio democratico» (p.87), né di ritornarvi per sviluppare «una cura di sé dove si tratterebbe, secondo una metafora significativamente sociale, di governare sé stessi» (p.96). Tornare all’orfismo è cogliere il primo movimento per «ricusare la polis nella sua integralità» (p.86) senza voler «fondare in nessun caso un’altra realtà sociale» (p.93). Tentativo estremo di deporre il potere costituito nell’attimo costituente della storia greca ed occidentale, l’orfismo implica di pensare la polis come luogo della catastrofe e della violenza perpetua. Ed infatti Coupat ricorda che il «meson è il luogo di condivisione solo perché è il luogo dove si deposita il bottino del saccheggio, sotto l’occhio geloso di tutti» (p.87) e, ancora, che la «comunità democratica non ha mai smesso di essere comunità del saccheggio e dell’omicidio» (p.88).
Contrariamente alla sensibilità ctonia di Schmitt e alla sua errata interpretazione del nomos, la fondazione di Atene come arché di tutte le città d’Occidente continua a riposare sulla metafora marinara della nave in tempesta (Odissea, III, 283) a cui si rifà anche Platone. Un metafora governamentale non tanto – o non solo – perché in essa al ruolo del rematore (spesso e volentieri uno schiavo) coincide il posto del cittadino ma, soprattutto perché la nave-polis affronta un mare in tempesta e, cioè, «un ambiente divenuto essenzialmente straniero, muto, ostile» (p.89). Nella fondazione della città sono il mondo e l’ambiente a venir esclusi e ricondotti nella città come territori stranieri, pericolosi e insicuri, da dover assoggettare, sfruttare, in ultimo, governare. La tempesta altro non è che la prima forma di crisi come strumento di governo.
Di più, attraverso gli occhi della via orfica, la fondazione della città appare come un gigantesco rituale sacrificale. Qui il Carchia riletto da Coupat ricorda il Carlo Levi di Paura della libertà quando, nel crudo capitolo intitolato significativamente Sangue, scrive che l’idolatria dello Stato altro non è che idolatria del sangue: «Le promesse si suggellano con il sangue: le amicizie si concludono mescolando il sangue. Le dinastie mitiche si originano nel sangue: solo il delitto politico fonda le tirannie. […] E gli Stati-idoli non possono nascere se non dal sangue, dal sangue versato dei propri figli e dei nemici, dal misterioso sacrificio umano, rosso generatore di dèi, della guerra» (pp.104-105). Questo legame di sangue appare nella sua prima istituzionalizzazione ad Atene proprio in quanto culla della civiltà occidentale. Un tema caro anche al Comité invisible che in A nos amis osservava la sostanziale identità di guerra e democrazia: «[…] gli antichi greci hanno inventato fin da subito la politica come continuazione della guerra con altri mezzi. La pratica dell’assemblea cittadina proviene direttamente dalla pratica dell’assemblea di guerrieri. L’uguaglianza nella parola deriva da quella davanti alla morte. La democrazia ateniese è una democrazia oplitica. Si è cittadini perché si è soldati [….]. Ma soprattutto, i greci antichi hanno concepito in un solo gesto la democrazia assembleare e la guerra come massacro organizzato, l’una come garante dell’altra» (p.186).
Un massacro la cui rappresentazione artistica coincide con la tragedia attica, la quale, non a caso, «si fonda sulla morte degli eroi, degli dèi e della natura» inclusi nella vita rituale della città attraverso la loro esclusione. Se l’assemblea pone le condizioni per l’emergere dell’unico logos, «è nel silenzio degli spettatori che la tragedia organizza le condizioni dell’ascolto, e dunque della sordità» (p.90). Ecco così che il gesto orfico analizzato da Carchia si oppone senza riserve al gesto che, secondo Coupat, contraddistingue il movimento interno della macchina mitologica occidentale; quello cioè di «appropriarsi di ciò che non si riesce più a sentire. Occidere: uccidere, fare a pezzi, annientare – tutti modi di appropriarsi di ciò che vive fuori di noi» (p.90).
Orfeo, in anni decisivi per la fondazione del Politico, propone dunque un «genere di vita» esterno alla polis e, cioè, fuori dalla politica della crisi e del sacrificio perché dentro un mondo rimasto ospitale e godibile. Ed è per questo che Orfeo preferisce al silenzio della tragedia e alla parola insanguinata dell’assemblea l’erranza del canto. Mediante una vita nomade e una parola cantata l’orfismo si configura come una potenza di sottrazione, ovvero un contro-movimento di rinuncia «al mondo di quelli che vivono in città». Qui Coupat avvicina Carchia alla geofilosofia deleuziana e al monumentale saggio di Laroche, Histoire de la racine NEM- en grec ancien. Orfico è colui che «esiliandosi dalla città, la esilia. Porta con sé la città abitabile. Contro la polis, lui prende le parti della chora, dell’entroterra, dei luoghi, dei mondi contro il mondo sociale, unico e allucinato» (p.94). Un entroterra che già Deleuze aveva concepito come un «insieme vago» che in tal senso «si oppone alla legge o alla polis, come un retroterra, un fianco di montagna o la distesa vaga attorno ad una città». Da questa prospettiva il nomos originario, quello che precede l’atto sacrificale con cui si assicura l’arché della città, va a circoscrivere una maniera, uno stile, un uso ed una forma-di vita in modo non dissimile dalla forma arcade che Monica Ferrando ha cercato di restituire nel suo Il regno errante: L’Arcadia come paradigma politico.
Se non può esistere polis che non sia già da sempre in tempesta, già da sempre lavata con il sangue sacrificale degli innocenti e che, dunque, risulti già da sempre separata dal mondo; se una tale polis non può esser letteralmente ri-pensata poiché una «nuova costituzione politica non ha alcuna possibilità di venire a capo di un disastro che è di natura antropologica» (p.98), allora non rimane che percorrere un reale contro-movimento che pensi «un politico senza polis» (p.99). Uscire dal paradigma della polis vuol dire che non c’è separazione, non c’è né vuoto, né sacrificio, tutto è abitato, «il mondo non ci circonda, ci attraversa». Partendo da riferimenti completamente differenti ma incrociando problematiche per nulla dissimili, Andrea Cavalletti chiudeva il suo La città biopolitica. Mitologie della sicurezza su un passo tratto dal Parmenide di Heidegger attraverso cui si dischiude la radicale possibilità di una politica non spaziale e uno spazio non politico: «La polis è tanto poco qualcosa di “politico”, quanto lo spazio stesso è qualcosa di spaziale». Secondo Cavalletti nel passo heideggeriano «l’apparire della polis comporta la sparizione della polizia» (p.242) e, cioè, la scomparsa dei dispositivi di crisi-governo. Occorre però specificare che questo “stile orfico” di intendere la città implica che proprio «la polis è anche, e per la stessa ragione, ciò per cui non si può provare alcuna nostalgia» (p.249). La città può apparire solo nel qui ed ora: unicamente nell’immediatezza essa si dà come spazio realmente abitabile o entroterra. Furio Jesi avrebbe detto che solo nella rivolta – o nella festa – «la città è sentita veramente […] come la propria città:[…] propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate» (Spartakus, pp. 45-46). Coupat parla dell’orfismo riletto da Carchia in modo non dissimile quando scrive che «non c’è altro materialismo conseguente che quello mistico, e viceversa, che un’umanità salvata sarebbe forse integralmente mistica» (p.96).
In conclusione, l’orfismo esiliando la polis, rivoltandosi contro il suo dominio, cantando e pascolando le sue strade, organizza la «sottrazione delle persone sane all’ethos democratico e cittadino» (p.99).