Recensioni / La funzione della crisi

Contemporaneamente alla ricorrenza del decennale del fallimento della banca di investimenti Lehman Brothers, nelle librerie è comparso un fondamentale contributo alla discussione filosofica e teorica sul termine crisi. Dario Gentili in Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2018) riapre un interrogativo di importanza decisiva per la comprensione dei processi capitalistici neoliberali, ossia cosa rappresenta la crisi, come può essere nominata e pensata.
Il punto di partenza del testo è che “crisi” non si definisce ­– come si farebbe con un concetto – attraverso le domande: «che cos’è, che cosa significa crisi?». Deleuze e Guattari in Che cosa è la filosofia?, hanno definito il concetto come un composto di elementi eterogenei, ma che tuttavia si definisce per essere «il punto di coincidenza, di condensazione o di accumulazione delle proprie componenti». Il concetto, per i due autori, «pone se stesso in se stesso, è auto-posizione».
Gentili, invece, ci mostra come questa crisi si dispone senza porre se stessa in se stessa, senza, cioè, porre il proprio significato. Essa si riferisce ogni volta a condizioni eterogenee che l’hanno prodotta, senza che gli elementi che dispone siano di natura esclusivamente concettuale. Ma, soprattutto, questa crisi incide direttamente sulle vite. L’interrogazione corretta e maggiormente adeguata per inchiestare la crisi, propone l’autore, è quella adeguata ad un dispositivo: «come funziona la crisi, quale funzione svolge?». Riprendendo Foucault, infatti, un dispositivo è definibile come quell’«insieme decisamente eterogeneo, che comporta discorsi, istituzioni, pianificazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, posizioni filosofiche, morali, filantropiche; in breve il detto ma anche il non-detto». Conseguentemente, ci suggerisce Gentili, la capacità del termine “crisi” di creare collegamenti e intrecci tra elementi eterogenei trova nella forma del dispositivo la sua connotazione. Tale configurazione della crisi in quanto dispositivo comporta «una funzione eminentemente strategica», stabilisce un «rapporto di forza». La non risolubilità della crisi diviene indice di mancanza di efficacia soltanto se ricondotta all’ordine moderno del potere, mentre è tutt’altro che inefficace se è un altro l’ordine del potere a cui questa crisi si riferisce: quella del capitalismo neoliberale. Lo scarto che il neoliberalismo compie rispetto alla modernità avviene assumendo una nuova determinazione, ossia quella biopolitica. Il neoliberalismo determina un ordine biopolitico: quell’ordine dove le alternative che si producono al suo interno non comportano decisioni finali e risolutrici, bensì funzionali al governo delle vite che in esso prendono forma.
Il moderno, così come Reinhart Koselleck lo ha raccontato e descritto, si è presentato su altre e ben più note direttive. Innanzitutto, è la modernità ad aver inaugurato l’uso politico del termine “crisi” e averlo configurato in quanto giudizio finale. Esso assume la connotazione politica nei momenti di crisi, quando il potere politico non è in grado di conservare l’ordine e una decisione risolutrice interviene in ultima istanza o per ristabilire l’ordine o per rovesciarlo. Pertanto deve configurarsi uno stato d’eccezione perché ci siano le condizioni per un giudizio finale e risolutore: è soltanto nella crisi che questo giudizio diventa “politico”, cioè soltanto quando il governo politico in carica non è più in grado di per sé di conservare il potere. Sulla scorta del lavoro di Schmitt e Koselleck, fondamentale funzione assume la figura del conflitto. All’interno del modello moderno di crisi, il conflitto è sinonimo della “malattia” che ha contagiato l’ordine: ma, al contempo, rappresenta anche il primo stadio di una possibile guarigione, in quanto comporta il discernimento e la distinzione, nello stato critico, tra un decorso salvifico e uno mortale. Il conflitto rappresenta quindi la condizione di possibilità della “decisione”, che non può che essere orientata alla salute, alla conservazione della vita.
La modernità introduce nella crisi la possibilità del nuovo, di cui è l’orientamento del futuro della “rivoluzione” a farsi portatore: è la concezione moderna della rivoluzione a convertire il funzionamento del dispositivo della crisi, che via via perderà i suoi connotati medici e consentirà l’assunzione del termine in altri e diversi contesti. Come Schmitt, anche Koselleck non attribuisce portata politica alla crisi se non quando essa conduce alla “decisione” e in questa, nella sua realtà e concretezza, si “risolve”. Però, nel momento in cui la crisi non arriva più a porre la “decisione finale”, cambia anche la funzione del giudizio della stessa critica. In quanto giudizio senza decisione, la critica politica risulta inefficace e rischia di risolversi in un mero esercizio che rientra nell’amministrazione della crisi come arte di governo. Gentili mostra come Koselleck sarà ancora più esplicito nel definire il modello semantico della crisi come quello che consiste nella «decisione finale» e non esita a richiamare, quale “risposta” al tramonto che oggi consegue all’incapacità della crisi di configurare la “decisione finale”, la figura del katechon della teologia-politica schmittiana. Se il modello teologico della decisione risolutrice era il Giudizio Finale, ora invece la fine non è più nella disponibilità della decisione politica, a cui pertanto non resta altro potere che quello di arrestare e differire una fine su cui non è più la politica con il suo paradigma moderno di crisi a decidere: «Si pone così la questione se il nostro modello semantico della crisi come decisione finale non ha più possibilità di realizzazione come talvolta in passato. Se così è, sarebbe indispensabile impegnarsi con tutte le forze per arrestare il tramonto. Il katechon è ancora una risposta teologica alla crisi». Insomma, conclude Gentili, nel momento in cui non arriva più a porre la decisione finale, cambia anche la funzione del giudizio della stessa critica.
Marx, Gramsci e la filosofia della crisi. Questo gli ulteriori autori che Gentili propone per delineare l’avanzamento e le deviazioni semantiche del termine crisi, ma il passaggio fondamentale per una nuova ridefinizione semantica si consuma con l’avvento del neoliberalismo, quando il dispositivo della crisi economica diventa di per sé politico. Diventa arte di governo a tutti gli effetti. Lo “stato d’eccezione come regola” non definisce più il predominio di una forma di potere di tipo sovrano, bensì rientra nel dispositivo economico delle crisi che, in politica, corrisponde a una forma di governo di matrice amministrativa: la governamentalità. Non più condizione di possibilità della decisione nella crisi, il conflitto stesso risulta piuttosto governato nella crisi, in quanto è finalizzato a una “decisione” che è già sempre preordinata. La decisione è sempre in risposta alla crisi, cioè prescinde dal funzionamento del dispositivo in cui è iscritta: l’alternativa posta dalla crisi è fittizia. La temporalità della crisi è ormai del tutto convertita in senso ciclico: si vive nella “eterna ripetizione del presente”, un presente ormai privo anche dell’incognita rappresentata dal futuro, dalla possibilità di alternative.
Quello che fa la rivoluzione neoliberale – che nasce dalla percezione di uno scacco epocale che va ben oltre la reazione alla crisi economica degli anni Trenta ma viene messo in primo piano lo stallo consolidato del progetto settecentesco di egemonia della libertà individuale – è recuperare il significato pre-moderno e letterale del termine “rivoluzione”, ossia ciclicità naturale, ripetizione e stabilità dell’ordine prestabilito riassumono il primato temporale rispetto alla storicità e alla direttrice progressiva della temporalità moderna. Con la crisi neoliberale, insiste Gentili, si ritorna a quella circolarità di “diagnosi” e “prognosi” che per Koselleck è stata spezzata via dall’irruzione nella storia della temporalità moderna e della rivoluzione in quanto affermazione del nuovo e discontinuità con il passato. Si ritorna quindi alla temporalità del “futuro passato”. Il neoliberismo ha fatto del giudizio della krisis una forma di giudizio politico, anzi il giudizio politico per eccellenza. Quel krinein che nel mondo greco caratterizzava il giudicare proprio della medicina e del diritto accede ora alla politica. Se per Platone e Ippocrate il krinein del giudice e del medico era al servizio del potere politico, ora questa modalità di giudizio configura l’arte di governo neoliberale, che a tutti gli effetti si può pertanto chiamare “biopolitica”. Altrettanto, la crisi neoliberale si può definire “crisi biopolitica”. Si tratta di una crisi che, nonostante sia presentata come crisi economica, opera invece come un dispositivo di governo e assolve pienamente a una funzione governamentale nel produrre e regolare le condotte delle forme di vita. Uno dei meriti di Foucault è aver compreso che il neoliberalismo risulta vincente non solo perché si è proposto come rappresentante di un’alternativa politica o di governo, quanto, piuttosto, perché il suo è un vero e proprio dispositivo di «governamentalità biopolitica». Il partito della vita, per riprendere Hayek.
La «crisi» non si presenta più, quindi, come momento di separazione e decisione, ma viene assorbita dentro il meccanismo del mercato. Questa riconfigurazione del concetto di crisi viene sostenuta da una novità di portata antropologica che il neoliberalismo introduce, ossia la tendenziale fusione del mercato e della vita in uno stesso paradigma. Un modello di gioco comunicativo, che Mises e Hayek propongono di designare con il termine «catallassi». Proprio il Premio Nobel per l’economia, ne I principi di un ordine sociale liberale, fa emergere come il verbo greco Katallattein venga a significare non solo il baratto e lo scambio, ma la funzione di «ammettere nella comunità e diventare amici da nemici». Di conseguenza il termine catallassi può essere usato per descrivere l’ordine introdotto dal reciproco adeguarsi delle molte economie in un mercato. La catallassi viene a presentarsi come un tipo speciale di ordine spontaneo prodotto dal mercato tramite gli individui che agiscono secondo le norme del diritto di proprietà, di responsabilità extracontrattuale e delle obbligazioni. La politica della catallassi non si pone come fine la creazione della comunità: consiste piuttosto nel sottomettere il conflitto e la sua potenza alla logica del maggiore vantaggio e della maggiore utilità in un determinato momento – questa è la logica “politica” del mercato. Il conflitto politico moderno – quello di classe o, in generale, quello tra amico e nemico – è, all’interno del mercato, precarizzato, diffuso e quindi neutralizzato nella forma della competizione e della concorrenza, che finiscono per fungere addirittura da legame della cosiddetta Grande Società globale. La neutralizzazione del conflitto politico è la condizione della concorrenza che governa l’ordine catallattico del mercato.
L’attuale crisi, questo ordine catallattico, si configura, come abbiamo visto, su un piano biopolitico. È su questo piano, scrive Gentili, che vanno pensati i processi di soggettivazione e i conflitti che essi agiscono nella società: la precarietà è figlia di questa crisi, che, in cambio della sopravvivenza, sembra condannarla – senza alternativa – alla sua condizione. La precarietà è dunque, innanzitutto, la condizione di vita determinata dalla posizione del singolo essere umano all’interno del cosmo del mercato. La conflittualità del precariato finisce per scaricarsi contro sé stesso e contro chi condivide la sua medesima condizione. Questa è la conseguenza di una conflittualità che non è riconducibile al suo concetto moderno dualistico e dicotomico, che ha caratterizzato tanta filosofia e politica del Novecento.
Ma questo non è un libro senza speranze, per cui un fuori dall’ordine neoliberale non è pensabile. Anzi, Gentili immagina anche traiettorie che lascia aperte, dove il conflitto deve rivelarsi – pensato in comune – non solo come ciò che divide la società, ma anche come ciò che fa società. Il conflitto, propone l’autore, potrebbe essere pertanto la pratica politica del come si decide di con-vivere. Deve trattarsi, conclude Gentili, di una concezione del conflitto all’altezza di una biopolitica affermativa: non di una biopolitica che impone scelte obbligate per garantire all’individuo la sopravvivenza, bensì una biopolitica della potenza, che fa del conflitto la pratica del decidere in comune.