Ciò che più colpisce il pubblico italiano, durante i primi concerti dell'Art Ensemble
Of Chicago fra otto località
dell'Emilia Romagna e l'exploit
al Festival Jazz di Bergamo il 20
marzo 1974, è l'impatto scenico. Tre dei cinque musicisti esibiscono fogge africane originali
e hanno il viso pesantemente
truccato alla maniera di antichi
rituali politeisti, gli altri due vestono casual, jeans, camiciotto
o maglietta, un po' freak giovanilista.
Già da qualche anno i musicisti free e hard bop amano presentarsi in scena indossando tuniche attillate, casacche sgargianti e copricapo etnici per ribadire la propria «discendenza» africana e il relativo credo
terzomondista, ma per i cinque
chicagoani l'abito non fa il monaco, bensì «è» il monaco, un
«religioso» laico di un cerimoniale artistico, dove il gesto e la
musica rispondono a un'idea di
sacralità rivoluzionaria.
La «maschera» e la tenuta sono insomma un tutt'uno con la
performance sonora che rimanda direttamente alla storia del
black people. Infatti ciò che, in
parallelo, sorprende il pubblico
italiano è anche l'estrema nonchalance con la quale la band
passa da un blues arcaico a un
assolo modernissimo, da una tirata boogie a uno scoppio free,
da un ritmo violento a un'atmosfera riflessiva. È pur vero che
da sempre, nel jazz, la sperimentazione interagisce con il proprio passato anche remoto, ma
un'alchimia sonora così potente in dialettica con il mondo contemporaneo risulterà l'elemento insolito di trasgressione, di
cambiamento, di sudata freschezza e di multidisciplinare rilettura a tutt'oggi insuperato
persino da esperienze pregresse (1 'Arkestra di Sun Ra) o posteriori (la Shibusa Shirazu Orchestra).
Linguaggio visivo
Da allora, ogni volta che l'Art Ensemble Of Chicago torna in Italia, si va a vedere il quintetto (talvolta allargato) non solo per
constatare il rinnovarsi permanente di un repertorio sempre versatile nelle citazioni storiche, ma anche per ammirare i
progressi del linguaggio visivo
nell'impatto, nel look, nella disposizione dei musicisti sul palco: i tre «mascherati» - Joseph
Jannan ai sax, Malachi Favors
al contrabbasso e Don Moye alla batteria - accentuano l'africanismo dei propri indumenti,
mentre Lester Bowie alla tromba appare in camice bianco da
medico ospedaliero e solo il fondatore, il polistrumentista Roscoe Mitchell ormai non rinuncia alla cravatta e alla camicia
per abiti classici dalle stoffe coloratissime (un po' alla Omette
Coleman).
Ma, da circa 20 anni, ogni volta che ne viene annunciato un
concerto, si va dunque a «vedere» l'Ensemble anche per conoscere il nuovo organico, applaudirne la longevità, nella consapevolezza che poeticamente resti forse il gruppo più coeso e
omogeneo nel sound afroamericano. Anche perché c'è un altro
ragionamento da fare.
Invariati
Nella storia del jazz infatti sono rare le band che restano unite per molto tempo senza cambiare organico: fa eccezione appunto l'Ati Ensemble che in questi giorni festeggia il mezzo secolo di vita all'insegna di una musica dirompente, rivoluzionaria, immaginifica, in grado di cambiare per sempre il cammino della black culture. È impegnativo restare insieme per così tanto tempo e appunto il jazz, nel proprio iter ultracentenario, sembra manifestare l'esatto contrario:
nel caso delle big band, infatti, è quasi fisiologico l'avvicendare solisti e accompagnatori, trattandosi di orchestre spesso costituite da oltre venti elementi; ma per quanto riguarda il combo o small group l'unione resta, dalle origini a oggi, qualcosa di effimero, instabile, legato insomma alla creatività o all'autorevolezza del singolo o al desiderio (e al sogno) di ogni musicista di voler cambiare, variare, sperimentare qualcosa di nuovo o diverso, che solo differenti partnership riescono a garantire. Se a tutto ciò via via si aggiungono la voglia di emergere dell'uno sugli altri, le rivalità o gelosie dentro o all'esterno di ciascuna formazione, il gioco dura poco, lasciando a volte disattese le speranze e le curiosità degli artisti e degli ascoltatori.
Esiste però, oltre l'Art Ensemble Of Chicago, qualche bella eccezione, meno compatta lungo
l'asse spaziotemporale: il Modern Jazz Quartet con John
Lewis, Milt Jackson, Percy Heath e Connie Kay dura circa un
ventennio (più una reunion), il
«golden quartet» di Miles Davis
con Wayne Shorter, Herbie
Hancock, Ron Carter, Tony
Williams arriva solo a un lustro,
i Weather Report resistono per
circa 16 anni con i davisiani
Shorter e Joe Zawinul alla front
line, mentre la rhythm section
muta in continuazione. Ma è solo la band creata da Roscoe Mitchell, nella storia culturale
afroamericana, che esiste e resiste per un quarto di secolo, tra il
1969 e il 1994, nel classico schieramento del quintetto, raddoppiando il periodo con qualche
aggiustamento da allora a oggi.
L'Ari Ensemble Of Chicago,
nota anche con l'acronimo
AEOC, scrive una storia che si palesa in seno alla neoavanguardia chicaogana e che ora si appresta a ripercorrere e festeggiare con We are on the Edge, un nuovo disco e una tournée mondiale, grazie ai due membri originali sopravvissuti (Mitchell e Moye), e alla collaborazione di altri tredici musicisti, tra cui la senese Silvia Bolognesi al contrabbasso e il senegalese Dudù Kouatè alle percussioni.
Il tema della longevità - diversa da quella dei tre casi sopracitati, fautori tuttosommato di un work in progress monolitico, tra diligenti persistenze e diritture miranti, più o meno consciamente, alla coazione a ripetere, giacchè a fondo quel Miles, il MJQ e i Report non avvalorano che sé stessi - va dunque meglio ribadito, non trovando ad esempio sufficiente credito nel pur esauriente libro del 2017 di Paul Steinbeck A Message to our Folks. The Art Ensemble of Chicago, 400 fitte pagine tradotte da Giuseppe Lucchesini e curate da Claudio
Sessa per Quodlibet con il titolo Grande Musica Nera.
La longevità del gruppo risulta, nel contesto sociopolitico, fondamentale per una sorta di vita collegiale, che rimanda al lavoro collettivo e allo sforzo comune nel proporre un inedito approccio verso ciò che i musicisti stessi chiamano The Great
Black Music fin dai Sixties, coinvolgendo persino concetti, identità, valori del jazz medesimo.
Fondamentale anche nelle parole degli attuali protagonisti, a
cominciare da Silvia Bolognesi,
con l'AEOC da due anni: «Mi raccontavano che ognuno di loro
cinque, fin da subito, insegnava
agli altri nuove conoscenze musicali, a partire dai propri strumenti. Passavano le ore assieme a provare e suonare. La loro
vita era la musica e viceversa.
Ancora oggi provano sempre
qualcosa di nuovo. Non si fermano. Vanno avanti. Noi più
giovani rimaniamo a bocca
aperta di fronte a tanta energia
e creatività».
Della stessa idea pure Dudu
Kouaté, anch'egli unitosi alla
band nel 2017: «Roscoe e Don
continuano a fare cose molto attuali, sono gli ultimi ad andare a
dormire e i primi a svegliarsi, lavorano e pensano in continuazione e questo è un bene per tutto il gruppo». E quando si chiede appunto a Moye, presente
fin dal 1970, cosa significhi far
parte dell'Ari Ensemble Of Chicago, risponde davvero candidamente: «Un sogno, semplicemente un sogno».
Fuori i dischi
«Suoniamo il blues, suoniamo il
jazz; musica spagnola e africana; musica classica, musica europea contemporanea, musica
voodoo. Qualsiasi cosa... perché in definitiva, è 'la musica'
ciò che suoniamo. Creiamo suoni. Punto».
A ribadirlo è Jarman fin dal
lontano 1969 per la rivista francese «Jazz Hot». Da notare che la
vicenda umana, politica, artistico-musicale dell'Ari Ensemble
è anzitutto una storia di dischi,
in mancanza di filmati che li rappresentino storicamente: a parte il carneo nel lungometraggio
Les stances à Sophie di Moshé Mizrahi (dove curano lo score, anche su disco). È dunque attraverso le numerose registrazioni del
gruppo (circa 200, insieme, con
altri, in proprio) che si percepisce oltre mezzo secolo di realtà
afroamericana in continua metamorfosi. Ecco 16 titoli rilevanti.
Roscoe Mitchell Sextet,
Sound (Delmark, 1966)
Benché esista un Before There
Was Sound inciso nel 1965 in
quartetto con Malachi Favors
(ma rimasto inedito fino al
2011), l'avventura inizia qui con
un disco profetico per 1'AACM,
il nuovo suono chicagoano, l'avanguardia nera e la genesi
dell'Art Ensemble, visto che, oltre il leader, ci sono Malachi e Lester Bowie. Un free strutturalistico ripreso in particolare da Anthony Braxton e Muhal Richard
Abrams.
Roscoe Mitchell Art
Ensemble, Congliptious
(Nessa, 1968)
I venti minuti della titie track
vengono suonati da Mitchell,
Bowie, Favors con il batterista
Robert Crowder, mentre i tre restanti brani risultano altrettante solo performance del futuro
nucleo originario della band
che si divide 11 strumenti più decine di piccole e grandi percussioni, facendo già del polistrumentismo un segno fondante.
A Jackson In Your House (Byg,
1969)
Inciso il 25 giugno 1969 allo Studio Saravah di Parigi segna il debutto ufficiale dell'Ati Ensemble Of Chicago in quartetto con
l'aggiunta di Joseph Jarman ai
già «collaudati» Favors, Bowie e
Mitchell che ufficiosamente detiene ancora la leadership, anche solo per il fatto di firmare sei
dei sette brani proposti. Seguiranno, sempre in quel 1969, altri due album (Message to Our
Folks e Reese and the Smooth
Ones) per la label francese, più
due per Freedom (Tutankhamun e The Spiritual) e uno per
Nessa (People in Sorrow) e per
JMY (Eda Wobu).
Art Ensemble Of Chicago With
Fontella Bass (America, 1970)
Anche in quell'anno il gruppo,
in cui entra a far parte stabilmente Don Moye, registra sette
album, di cui questo è il primo
con un'ospite celebre, la cantante di r'n'b (celeberrima la sua Rescue Me) che s'adegua al free
con melodie cantilenanti in sintonia con gli aspetti maggiormente ritualistici, lavorati su
due suite concepite in modo
quasi filmico.
Urban Bushmen (ECM, 1982)
Dopo il tentativo quasi etno-folk di metà Seventies con
l'Atlantic (Fanfare for the Warriors e Bap-Tizum), ecco il live
dall'Amerika Haus di Monaco
(12 agosto 1980) che rappresenta la summa di un quindicennio
di sperimentazione, nonché il
terzo dei quattro capolavori per
l'etichetta bavarese (Nice Guys,
Full Force, The Third Decade)
che, pur levigando il sound della band e addolcendolo sul piano tecnico, non riesce comunque a smussarne il costante effetto dirompente.
Art Ensemble Of Soweto (DIW,
1990)
Quinto dei nove lavori per la label giapponese (notevolissimi
anche Ancient to the Future di sole cover, Dreaming Of the Masters Suite su John Coltrane,
Thelonious Sphere Monk con
Cecil Taylor), la band si confronta con il sudafricano Amabutho Male Chorus composto
dalle voci Elliot Ngubane, Kay
Ngwazene, Welcome «Max»
Bhe Bhe, Zacheuus Nyoni, Joe
Legwabe per un riuscito tentativo di integrazione tra culture
afro.
Joseph Jarman, Don Pullen
& Don Moye, The Magic
Triangle (Black Saints, 1979)
Pur non potendo registrare dischi con l'intero Art Ensemble,
l'etichetta milanese, votatasi al
free, dà molto spazio ai singoli
del gruppo, talvolta favorendo
sorprendenti collaborazioni come questo trio in cui Jarman e
Moye sono affiancati da Don
Pullen, in quattro lunghi brani
dove spicca in particolare l'interplay tra pianoforte, percussioni e ben sei tipi di fiati.
The Leaders, Out Here Like
This (Black Saints, 1983)
Si tratta del secondo dei cinque
album del supergruppo composto da Chico Freeman, Arthur
Blythe, Cedi McBee, lurk
Lightsey, oltre Bowie e Moye: è
anche una sorta di all star come
fiore all'occhiello per la label
meneghina. A spiccare è Zero,
brano d'apertura scritto da Bowie, la cui tromba duetta magistralmente con il sax alto di Blythe.
Salutes the Chicago Blues Tradition (1993)
Creata finalmente una propria
etichetta e propensi ormai a
omaggiare le tradizioni afroamericane, i cinque presentano
blues classicissimi da Got My
Mojo Workin' a Hoochie Coochie Man, in compagnia di veri
bluesmen (Herb Walker e Chicago Beati) e di nuovi giovani
musicisti post-free (Amina
Claudine Myers, James Carter,
Frani.
Lester Bowie Brass
Fantasy, The Odyssey of Funk
and Popular Music (1999)
Per cronologia, è l'ultimo e quello maggiormente «pop» fra i dieci album ufficiali della grossa
formazione che il leader propone solo con trombe, tromboni,
tuba e ritmica quasi a sviluppare ulteriormente il coSté bandistico, ludico, ironico dell'Ari Ensemble grazie a cover eterogenee da Nessun donna a Don't
Cry for Me Argentina risolte, è il
caso di dirlo, con humour e brillantezza.
Kalil EI'Zabar's Ritual Trio,
Africa N'da Blues (Delmark,
2000)
Il percussionista chicagoano (al
secolo Clifford Blackburn) dirige dal 1985 questa piccola formazione che, per questo nono
album (dei 14 finora pubblicati)
vanta ancora la formazione originaria con Favors e Ari Brown
(pianoforte e sassofoni) ai quali
si aggiunge come ospite il mitico Pharoah Sanders in evidenza con Miles 'Model suo mentore John Coltrane.
Tribute to Lester (ECM, 2003)
Registrato nel settembre 2001,
oltre l'effimero ritorno alla casa
tedesca, segna il sentito omaggio che i tre Mitchell, Favors,
Moye - ancora senza Jarman
che si prende una lunga pausa
di riflessione rispetto all'intero
gruppo - dedicano a Bowie da
poco scomparso (8 novembre
1999), il primo ad andarsene,
purtroppo seguito dagli stessi
Favors (30 gennaio 2004) e Jarman (9 gennaio 2019).
Reunion (manifestodischi/
Around Jazz, 2003)
Il ritorno al completo (a parte
Bowie, morto quattro anni prima) di una formazione più agguerrita che mai, tanto nel celebrare i propri trascorsi con il
medley All In Together/Zero/Alternate Line/Odwalla, quanto a
richiamarsi direttamente all'Africa in Wolorrà e Ce soir à Bankoni scritte dal polistrumentista maliano Baba Sissoko per
qualche mese nella band.
Non-Cognitive Aspects of the City (Pi Recordings, 2006)
Dal vivo a New York (2004) in
quintetto con le new entry Corey 'Wilkes (trombe) e Jaribu
Shatild (bassi) al posto dei compianti Bowie e Favors, i restanti
Roscoe, Joseph e Don si spostano eccezionalmente verso
l'hard bop, sia pur rinvigorito
da un forte impatto percussionistico, per ribadire che l'AEOC di
disco in disco va sempre avanti,
senza mai essere uguale a sé
stesso.
The Art Ensemble of Chicago
And Associatéd Ensembles
(ECM, 2018)
In vista del cinquantenario, l'etichetta bavarese lancia un cofanetto di 21 cd con quanto registrato in gruppo (o con altri insiemi) direttamente collegabili
a uno o più membri dal '73 al
2015, dall'iniziale Nice Guys
all'ultimo «celebrativo» Made
in Chicago di Jack DeJohnette.
Un libretto accluso di 300 pagine offre il punto di vista dei jazzmen Craig Taborn, Vijay Iyer,
George Lewis.
We Are on the Edge (Pi Recordings, 2019)
Non solo il sottotitolo (A 50th
Anniversary Celebration) ma
l'intero progetto è più che eloquente: 2 dischi di 70 minuti ciascuno e una formazione allargata a big band con gli storici Mitchell e Moye affiancati da Moor
Mother, Rodolfo Cordova-Lebron, Hugh Ragin, Fred Berry,
Nicole Mitchell, Christina
Wheeler, Jean Cook, Eddy
Kwon, Tomeka Reid, Jaribu
Shahid, Junius Paul, Enoch Wil -
liamson, Titos Sompa, Stephen Rush e i già citati Kouaté e
Bolognesi.