Recensioni / Il cinema di poesia

Paolo Desogus lega lo studio della letteratura a un solido retroterra teorico, soprattutto semiotico, alla passione per il cinema e a una lunga militanza in politica. Lo dico perché la sua prima monografia, Laboratorio Pasolini, che gli è valsa vari riconoscimenti in ambito accademico (soprattutto americano), fonde queste sue propensioni nell’opera e nel nome di Pier Paolo Pasolini, su cui lavora ormai da più di dieci anni. Pasolini è stato al centro, negli ultimi vent’anni, di un densissimo dibattito critico che ha visto la nascita di oltre cinquanta monografie e migliaia di articoli specializzati. Laboratorio Pasolini (Quodlibet, 2018) si inserisce in questo contesto, mettendo a sistema in modo originale il concetto di opera-laboratorio, che descrive tutti quegli scritti in prosa o poesia e quelle opere cinematografiche che esibiscono i meccanismi linguistici e semiotici di cui sono costituiti, cioè che mostrano sé stessi e la propria struttura senza infingimenti.
Centro dell’attenzione dell’autore sono soprattutto gli anni sessanta, in cui Pasolini mette alla prova il mezzo cinematografico alla ricerca della «lingua scritta della realtà», dopo la sperimentazione romanzesca degli anni cinquanta e lo studio delle forme dello stile indiretto libero. Il centro del suo interesse sono le effettive possibilità offerte dallo stile, dalla lingua e dall’immagine; e più nello specifico il processo semiotico di traduzione della cosa nel segno, del reale nel simbolico che può acquistare un senso inedito, divenire uno spazio di resistenza, da cui elaborare una risposta contro-egemonica alla classe dominante. Per questo Desogus dedica importanti riflessioni alla soggettiva libera indiretta, in particolare nelle opere di Edipo re (1967) e Teorema (1968): essa ha il compito – secondo lo studioso che si richiama qui a una prospettiva gramsciana, mai acritica ma sempre ripensata e discussa – di congiungere l’intellettuale e il popolo:

«Agli occhi di Pasolini – scrive l’autore – il pensiero gramsciano, se da un lato ha il limite di piegare e vincolare il carattere vivente del mondo popolare e subalterno alle ragioni del conflitto sociale, dall’altro fornisce per mezzo del principio della consentimentalità, lo strumento per comprendere il carattere spontaneo e irrazionale che dimora in ogni individuo e che egli intende valorizzare conferendogli un inedito carattere politico».

Nel «cinema di poesia», che Desogus indaga, l’oggetto è raffigurato nella sua nudità e non è ricondotto a un modello comunitario o sociale che lo preforma, così come il materiale audio-visivo non è comprensibile solo nella logica della narrazione, ma assume una funzione estetizzante e autonoma rispetto a quanto narrato, con l’effetto di straniare lo sguardo dello spettatore, tradendone l’orizzonte d’attesa. È forse l’aspetto più rilevante del libro il fatto che l’autore del Laboratorio Pasolini risalga a ritroso l’elaborazione del «cinema di poesia» e scorga una profonda continuità con la semiotica e la linguistica.
Sin in opere giovanili e minori quali Romans (1948-49), I parlanti (1951) o L’Italiano è ladro (1955), l’autore rintraccia i primi elementi metatestuali (in particolare, l’uso della parola altrui) che ridisegnano il percorso teorico di Pasolini all’insegna degli interessi per la linguistica, evidenziando così come la propensione alle questioni della lingua si intrecci in modo naturale alla nascita della semiotica e all’affermarsi dello strutturalismo, e non sia invece da questa predeterminata.
Non avrebbe molto senso chiedersi se Pasolini sia stato o meno un linguista; come per molti artisti del Novecento la sua teoria non è sistematica, perché è sempre funzionale a legittimare il dato artistico, e mai viceversa. Tuttavia, nel decennio tra il 1961 e il 1971, anno di pubblicazione di Empirismo eretico, nelle cui pagine si condensano i suoi maggiori sforzi teorici, Pasolini perviene a un alto grado di elaborazione teorica in cui è possibile identificare due linee di ricerca, felicemente analizzate da Desogus: la prima, più tradizionale e legata alla stilistica e all’estetica, comprende la lettura di Gianfranco Contini, Giulio Bertoni, Giacomo Devoto e Benedetto Croce; la seconda, invece, intreccia le problematiche della lingua alle peculiarità dei dialetti, in una chiave socio-politica, che sarà propria anche del Pasolini degli anni settanta.
Lo stile è – per il Pasolini di Desogus – una questione politica, è lo strumento d’elezione con cui l’artista si oppone agli effetti culturali della crescita economica e del nuovo potere, quali l’omologazione di massa e l’annientamento delle forme linguistiche residuali, come i dialetti.

«Se infatti – scrive Desogus – la lingua è l’esito di “una scelta, un indirizzo culturale” e di un processo storico, se dunque la sua analisi ha sempre a che fare con grandezze ideologiche, credenze, visioni del mondo […], allora cade ogni barriera che separa descrizione e critica, analisi e presa di posizione: osservare, analizzare ed esibire i suoi meccanismi, che siano letterari, giornalistici o che riguardino “l’italiano medio”, vuol dire compiere un ulteriore atto politico».

In queste righe, tratte dal capitolo dedicato a Empirismo eretico, è condensato il centro del lavoro di Desogus, tutto speso a leggere Pasolini attraverso una prospettiva politica (talvolta magari eccessivamente deterministica, ma sempre intelligente e critica) in cui entrano in congiunzione lo stile, gli studi linguistici e semiotici, il cinema di poesia, lo stesso autore in carne ed ossa.
Il laboratorio è così «consapevole volontarismo», ostinata e perdurante tensione a misurare attraverso le proprie difficoltà artistiche il grado di penetrazione del neocapitalismo, che nell’ultimo Pasolini lascia sempre meno spazio alla libertà espressiva del singolo fino agli esiti estremi di Petrolio e di Salò o le 120 giornate di Sodoma.