Recensioni / Cinque pensieri (Estratto da Distratti dal silenzio)

non volsi al mio refugio ombra di poggi,
ma de la pianta più gradita in cielo.
Petrarca, CXLII

Vivere senza scrittura. Prima pensavo che si trattasse di una costrizione, di un’impossibilità contingente, per quanto grave, che mi impediva la concentrazione e la tranquillità (la tranquillità?) necessarie per scrivere. Adesso comincio a capire che si può trattare di una scelta.
Nella scrittura c’è sempre una componente di difesa, di vergognosa realizzazione di sé, di resa al normale corso delle proprie disposizioni, di ricerca di una giustificazione sociale per sentimenti che non dovrebbero averne bisogno. Per quanto si cerchi di combattere contro tali automatismi è probabile che non ci sia niente da fare: la scrittura rientra in quella che forse è la massima delle abiezioni contemporanee, l’abiezione della produzione, del bisogno di produrre, per cui non si vale per quello che si è, per quello che si vive, ma per quello che si fa, per quello che si produce, e non solo per quello che si produce di socialmente utile, ma anche per ciò che si produce – ed è il caso della poesia di questi tempi – di assolutamente inutile dal punto di vista di un’integrazione sociale dello scrivente.
Allora l’imperativo può essere questo: rinunciare alla poesia in quanto riparo. Rifiutare di adagiarsi nella culla della scrittura, che non è e non sarà mai l’esperienza più importante da vivere. Né è possibile vivere seriamente il fatto di scrivere come un mestiere. Sento che la vera scommessa è quella di vivere senza scrittura. Ma a questo punto cado in un’incertezza.
Ci sono due possibilità aperte. Dovrò vivere come uno che la poesia la fa nella vita? Dovrò vivere poeticamente, ammesso che ciò abbia un significato a parte quello retorico? Potrebbe essere, non lo escludo, uno dei destini della poesia. Ma temo che questa scelta non sarebbe abbastanza radicale, perché non si farebbe che spostare il problema dalla scrittura alla vita, e qualcuno particolarmente geniale potrebbe essere tentato di farsi una cuccia nella vita come se la vita fosse una scrittura. Allora fare il poeta rischierebbe di significare qualcosa come fare il sacerdote di una poesia che sta nelle cose e nelle persone, ma dal punto di vista del prete questo non comporterebbe quasi nessun rischio (e al fondo dell’assenza di rischio sta probabilmente la noia e il disamore di sé).
L’altra possibilità sarebbe quella di lasciar perdere, ma davvero, la poesia, anche, in qualche misura, contro se stessi, ma è possibile? Sto cercando di pensare che è sbagliato porsi questa serie di interrogativi, e che la cosa giusta sia di accettare la poesia quando viene e in qualunque forma si presenti. E allo stesso modo forse si potrebbe accettare l’assenza di poesia per quello che è: una vita di piccolissime faccende di cui ogni giorno dobbiamo gioire e soffrire, una vita che entra e che non possiamo permetterci di rifiutare e da cui non è proprio possibile trovare riparo.

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L’andare a capo, in poesia, è una faglia immotivata nell’andamento della prosa. Ma la ricorsività di questa spezzatura può nauseare. Così il verso, ciò che potrebbe rispondere a un imperativo assurdo e tremendo, ciò che potrebbe corrispondere al crollo di ogni stampella razionale, ciò che, affacciandosi su uno spazio di vuoto, potrebbe testimoniare l’impossibilità di un controllo sulla natura imponderabile della nostra vita, col tempo si è fatto abitudine, norma dell’andare a capo, abilità tecnica e stilistica. Facoltà di controllo. Andare a capo è diventata una cosa normale.
All’inizio, la conformazione del testo in versi – nel canto, e poi nella scrittura – costituiva il momento di unione ipostatica fra la durata del respiro (l’attaccamento alla fisicità dell’esistenza) e un violento principio formale, che nella sua tendenziale antisemanticità proclamava il diritto a un sapere dei sensi e del corpo, contro la crescente egemonia della mente, della volontà di potenza, del potere del Senso. Tutto ciò è diventato, sempre più, sapere tout court, e sempre più, malgrado le apparenze, si è venuto approfondendo il solco che separa prosa e poesia: o si sceglie la razionalità sintattica, il quieto vivere, o si sceglie la libertà coatta di un andare a capo per principio, con leggi il cui fine è sempre e comunque il distacco dalla prosa, come per negare diritto di cittadinanza alla continuità dell’esistere, come se il vero problema fosse di decidere fra continuità e discontinuità, a favore di quest’ultima.
Ciò che interessa non è allora una poesia che vada verso la prosa, ma una scrittura che sia prosa e sia poesia allo stesso tempo. Una poesia in cui tutto il terribile dell’andare a capo venga liberato, e dove le leggi metriche si brucino della loro stessa incandescenza. L’a-capo riconquisti la sua natura, che non può che essere occasionale e arbitraria sul piano del senso. La prosa deve vivere nel terrore della poesia, e viceversa. Tutto ciò che nascerà, nascerà sotto la minaccia di una spezzatura.

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Ho trovato questa frase in Cardarelli: «La forma, se è vera forma, cioè manifestazione di personalità, non è considerabile che come puro contenuto» (1912). L’affermazione puzza e forse è falsa. Si provi a capovolgerla così: “Il contenuto, se è vero contenuto, cioè emanazione di impersonalità, non è considerabile che come pura forma”.
Lo stile deve essere tutto tranne che emanazione (o peggio: manifestazione) della personalità. Questo può essere un grado di partenza, ma il passo successivo e necessario deve andare nella direzione opposta, contemplando uno stile in quanto forma impersonale o sovrapersonale.

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La percezione è un fatto personale, è un fatto del corpo e il corpo – qui da noi – non è un fatto sociale, è un fatto privato. Se voglio essere degli altri, e se voglio farlo per il tramite percettivo (l’unico che conti), devo impiegare tutte insieme le mie forze per giungere non agli effetti della percezione, né all’essenza di questa o quella sensazione, ma al senso della percezione in sé. Solo pigiando tutti i pedali sensoriali insieme e intensamente è possibile attingere a una dimensione comunitaria della scrittura.
È questo il momento in cui non c’è più bisogno di uno stile individuale, perché è in questo momento che esso si collettivizza perdendo la sua ragione d’essere. I sensi isolati, esercitati uno per uno, supplivano alla completezza percettiva per il tramite dello stile. Lo stile era lì a scopo difensivo. Tappava i buchi attraverso i quali il rumore del mondo – le degenerazioni del sociale, i significati, le idee, la zavorra, l’entropia del mondo – rischiava di penetrare, perché una sola sensazione isolata non garantiva di per sé una difesa sufficiente della rocca-poesia. Ma un effetto collaterale dell’adozione di uno stile è il fatto che esso non impedisce solo l’entrata, ma anche l’uscita: blocca le porte. Per escludere il rumore del mondo ci si vietava l’accesso alla totalità del mondo.
Allora era meglio rischiare, togliere i tappi e lasciare che il mondo (buono e cattivo) entrasse e uscisse da tutti i buchi.
A ostacolare l’entrata del mondo cattivo potrebbero bastare le forze unificate di più sensi. Nei momenti migliori la forza della percezione in sé può contrastare il cattivo sociale nel suo intento di annichilire la percezione della percezione, e permettere a quest’ultima di sprigionare il suo messaggio sociale, che è in sostanza un messaggio di condivisione, un farsi carne del mondo.

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Uno non è distratto perché ha la testa per aria. È vero il contrario. La distrazione è tale perché la concentrazione e l’attenzione sul mondo sensibile sono massime. La distrazione implica un disseminarsi del sé negli oggetti, con una sfumatura di gioia, di disimpegno positivo, per poi ritornare con più foga all’interno, per ritornarci, soprattutto, meno concentrati sul sé come mondo e più concentrati sul mondo come sé.