Recensioni / Trasanna, l’antilirico carsico che saliva sul ring

Per strano che possa apparire, la storia e la parabola intellettuale di Giulio Trasanna non è così diversa da quella di Arthur Cravan: entrambi pugili, entrambi letterati non di primo pelo, autodidatti anzi, con tutti gli ornamenti psichici che dall’autodidassi ai letterati discendono, direbbe Gadda: un po’ burberi, sanguigni, irregolari. Di Cravan, che rivendicava la sua augusta presenza al limite della liceità nel nipotame di Oscar Wilde, Adelphi ha da poco pubblicato Grande trampoliere smarrito, nel quale è ben evidente l’influenza del poeta inglese su Duchamp e compagni. Nelle sue lunghe e incessanti peregrinazioni a precipizio sull’insolenza (ne sa qualcosa Gide), Cravan sembra abbia trovato il tempo di vivere anche a Città del Messico, in «uno squallido alloggio in calle de Soto» – secondo la ricostruzione del curatore Edgardo Franzosini – «dalla cui unica finestra si scorgono, in lontananza, la grande cupola e le torri campanarie di Nuestra Señora de Guadalupe». Cravan, scrittore mastodontico, poligrafo eterodosso e peristaltico, il 23 aprile 1916 osò gareggiare (e perdere) contro il campione di boxe Jack Johnson.
Gli incontri di pugilato di Trasanna furono più modesti: dominatore indiscusso in Friuli, non riuscì mai a conquistare il titolo italiano dei pesi leggeri. Nato nel cantone svizzero di San Gallo il 10 agosto 1905 da mamma friulana e papà di origine urbinate, Trasanna crebbe a Udine e si stabilì a Milano negli anni venti. Messo in situazione di knockout dai filosofemi-montanti nietzschiani, sente la sua investitura alle Lettere come una vera e propria epifania, per la verità, poco esiodea. Nella Nota biografica a Soldati e altre prose (a cura e con un saggio di Riccardo Donati, Quodlibet, pp. 134, € 14,00), il curatore informa: «Stando ai biografi, è in attesa di salire sul ring che una sera, a Milano, si ritrova fra le mani una copia di Al di là del bene e del male. Sprofondato nella lettura di Nietzsche, si dimentica dell’incontro e trascorre la notte a leggere e riflettere».
Dopo un apprendistato culturale durato tutto l’arco degli anni trenta – grazie a notazioni critiche per cataloghi d’arte e importanti incontri con Caproni, Quasimodo e altri –, esordisce in poesia nel ’38 con Annate. Del ’41 è appunto la prima edizione (Guanda) di Soldati e altre prose, progetto di scrittura che nasce dalla grandiosa «volontà di affermare le dignità delle storie degli ultimi all’interno della Storia con la esse maiuscola» (Donati). Sulla scia di Manzoni e Ungaretti, ma prefigurando anche la «storia degli sconfitti» (Raboni) del Diario d’Algeria sereniano, Trasanna compone un romanzo pluralista sul popolo smarrito nel gorgo della Grande Guerra, in virtù di un’architettura narrativa zigrinata e di echi da Dostoevskij a Maupassant, da Comisso al primo Bilenchi, evitando – com’è naturale che sia per un autore recisamente eccentrico – il confronto con le pastoie del dannunzianesimo («All’abilità preferii l’autolesionismo»). Scrive ancora Donati con precisione diagnostica: «Quella di Soldati è una scrittura sorprendentemente asciutta, dura, ossuta, aritmica, dunque sostanzialmente antilirica e antisoggettiva».
Un esempio? «Le campane battono per la salma esposta in panno nel vetro, sulle colline brianzole. Le mogli con le sottane lunghe, le suocere e le nonne e tutti i mariti, gli zii e qualche bisnonno, si avvicinano alle porte delle chiese, cominciando a segnarsi dalla fronte come è stato loro insegnato» (Ruralia II).
Soldati e altre prose è diviso in tre parti: le prime due sono centrate sulla Guerra del ’15-’18 e, in particolare, sul fronte Austria-Italia; la terza – di cui si è appena dato un saggio – descrive la campagna friuliana con i suoi riti atavici. I sei racconti della prima parte raffigurano quadri oggettivi di operazioni belliche che seguono cronologicamente – con sbalzi e ritorni di fiamma – il periodo tra l’estate del ’16 e il novembre del ’18. La seconda parte cede, invece, il passo a un tenue spettro di soggettività con lo sguardo calato sulla vita comunitaria. I quattro racconti finali di Ruralia, anche qui con singolare tackle d’anticipo sul Pasolini di Poesie a Casarsa e con picchi di lirismo che ricordano Scipio Slataper, riesumano un’ancestralità sulla via dello sbiadimento.
Dopo Soldati la fortuna poetica e la vita di Trasanna seguono ardui percorsi di complicanze: a seguito di altre, meno incisive pubblicazioni (come Frammenti per il fratello e alcuni testi teatrali), complice lo stato di abbandono e disinteresse da cui è circondato, si spegne a Milano nel settembre del 1962. Proprio questo margine d’inosservanza è ora riproposto dal volumetto di Quodlibet, che richiama alla nostra memoria un poeta di «sacchi di paglia» che «scaldano caldiere / di brodo e di bitume»: come Cravan, uno scrittore calcareo, carsico.