Recensioni / A. Musci, La ricerca del sé: Indagini su Benedetto Croce

Nei primi anni Ottanta del Novecento, quando il giovane autore di questo libro nasceva nella città di Taranto, gli studi su Benedetto Croce iniziavano a sperimentare nuove prospettive di ricerca. Nel 1982 era stata varata l’Edizione Nazionale delle Opere (editore Bibliopolis, presidente Gennaro Sasso), programmata in sette sezioni, di cui sono ormai apparsi numerosi volumi. Nel 1985, in occasione del quarantennio della Liberazione, Laterza pubblicava la silloge su La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, con sette contributi che proponevano una analisi complessiva del pensiero italiano nel periodo della Repubblica. A partire dal saggio di Eugenio Garin (Agonia e morte dell’idealismo italiano), vi circolava un’aria di rinnovamento negli studi su Croce: «di Croce – scrisse allora Garin – la cultura italiana doveva “liberarsi”, ma non “rifiutandolo”, bensì facendone tesoro, appropriandosi le sue conquiste, utilizzando le sue indicazioni, ma per mutare cose e idee attraverso un rigoroso giudizio storico del suo significato e della sua opera». Dai due convegni di Anacapri e Padova del 1981 al volumetto curato da Jader Jacobelli nel 1986 (Dove va la filosofia italiana?), fino al convegno della Società filosofica italiana del 1987, dedicato al neoidealismo e curato da Piero Di Giovanni, cominciarono ad affermarsi inedite chiavi di lettura. Il libro di Alfonso Musci, che raccoglie cinque ricerche di notevole impegno erudito e filosofico, può essere considerato un tentativo, sostanzialmente riuscito, di tracciare un bilancio di tale stagione di studi da parte di un esponente di una nuova generazione di ricercatori e anche di esplorare sentieri ermeneutici ulteriori.
In apertura del primo saggio (Pensare per distinti. La funzione delle parole), Musci chiarisce alcuni criteri metodologici che possono essere considerati come la premessa dell’intera ricerca. L’autore ricorda che l’esigenza di «storicizzare Croce», affermata dalla recente critica, ha dato luogo a «due principali tendenze interpretative che hanno caratterizzato gli studi crociani del secondo Novecento» (p. 37): da un lato, la tentazione di risolvere o persino dissolvere la complessa trama speculativa del “sistema” nei sentieri della storia della cultura o della storia in generale, dall’altro lato il richiamo a una lettura «schiettamente teoretica dei testi», che spesso si è presentata come rifiuto puro e semplice del primo indirizzo. Di fronte a tale alternativa, Musci dichiara che «nessuna delle due operazioni può dirsi tuttavia sufficiente o fare a meno dell’altra» (p. 38), rifiutandole perciò entrambe nella rispettiva unilateralità e cercando una prospettiva che le intrecci in maniera non estrinseca od occasionale: il problema della storiografia filosofica, che diventa particolarmente acuto per lo studio di un pensatore come Croce, è infatti di coniugare l’indagine storica con l’analisi strutturale delle opere, mostrando la genesi delle idee dalla concreta biografia e, viceversa, il divenire di una posizione storico-politica nella evoluzione intrinseca dei concetti. L’indicazione di questo metodo storico-critico, che unisce e non divide astrattamente teoria e storia e che ha un valore generale nella ricerca filosofica, permette a Musci di enucleare nodi fondamentali del pensiero di Croce, non perdendo mai di vista la trama delle opere filosofiche ma indicandone, con altrettanta energia, i vettori di sviluppo e le intime trasformazioni.
Di qui deriva l’altra premessa metodologica che ispira il libro. Musci sottolinea che la «riscoperta del filosofo napoletano sarebbe giunta inaspettatamente a margine di un lavoro interpretativo subalterno, legato, più che agli studi filosofici, alla pratica filologica e lessicologica»; e conclude che «nel restauro testuale possiamo individuare il confine e il limite tanto di una storiografia a-teoretica, che di un’attività teoretica oltranzista e indifferente alla mobilità storica delle idee» (p. 39). L’importanza assegnata alla filologia – in una linea che unisce il concetto gramsciano di “filologia vivente” alla conferenza americana di Edward Said (p. 47), passando per autori come Eric Auerbach o Leo Spitzer –, non solo nelle aggettivazioni “classiche” o “romanze” (innestate sul tronco della grande filologia romantica) ma per l’indagine filosofica propriamente intesa, giustifica la ricerca di quel nesso immanente tra storia e critica testuale a cui si accennava prima. In effetti, il restauro dei testi (compiuto nei volumi della Edizione Nazionale e nelle ricerche a essi collegate) ha reso possibile lo studio delle varianti, delle progressive revisioni e correzioni, delle dinamiche cronologiche dei pensieri stessi, che testimoniano il processo di costruzione di un “sistema” mai fermo o immobile, ma sempre sottomesso alla prova del tempo. Anche nel caso di Croce (ma si tratta, di nuovo, di un metodo di valore generale) la filologia ha indicato la strada di una ricerca filosofica di tipo dinamico, capace di coniugare la riflessione sulla struttura teoretica dei testi con il movimento incessante dei concetti, in uno scambio mai definitivo tra il tempo storico e l’elaborazione delle idee. Musci lega acutamente questo rilievo metodico della filologia al peso che, nella filosofia di Croce, acquista il fatto della «parola» (p. 43), che – oltre ogni suggestione postmodernista – è plasmata «per “dire la verità” e custodirne la circostanza irripetibile». Ma nel libro offre almeno due esempi della validità della prospettiva adottata: nel secondo capitolo del libro (pp. 49-77), con la ricostruzione del saggio del 1912 su Storia, cronaca e false storie, messo in parallelo con lo scritto di Renato Serra sulla Partenza di un gruppo di soldati per la Libia, dove emerge il confronto suggestivo tra i due autori e si osserva come «lo schiavo della cosa in sé» (così Serra si definì nella lettera a Croce dell’11 novembre 1912) non fosse poi tanto lontano dal clima spirituale che aveva generato la filosofia crociana, rileggendola nel prisma drammatico di frammenti incomponibili, con il caratteristico prevalere di un kantismo radicale (tinto dei colori della letteratura di Tolstoj) sull’ascendenza hegeliana e soprattutto gentiliana dello scritto di Croce; in secondo luogo, nel quarto capitolo (Dall’autobiografia alla politica della virtù, pp. 91-120), che è tra le cose migliori e più mature del libro, dove Musci mette a pieno frutto il lavoro condotto per l’eccellente curatela del volume di Etica e politica della Edizione Nazionale (uscito nel 2015 per Bibliopolis), mostrando la genesi e lo sviluppo dei diversi saggi che compongono la raccolta del 1931 e così ricostruendo – con gli strumenti, appunto, della filologia e delle varianti testuali – la difficile maturazione dell’antifascismo e, nello stesso tempo, del nuovo liberalismo crociano. Fin dalla densa introduzione (Trauma, sopravvivenza, ricerca del sé, pp. 9-34), il libro è attraversato da una domanda radicale sul significato dell’autobiografia e della biografia in relazione alla filosofia e alla storiografia. Come si sa Croce (a differenza di Gentile, che ricorse al “genere” autobiografico più raramente e con meno intensità) ha lasciato scritti autobiografici, a cominciare dal celebre Contributo alla critica di me stesso del 1915 e dai Taccuini di lavoro, che rappresentano veri classici e proseguono, perfezionandola, la ricca tradizione italiana di Vico, Genovesi, De Sanctis. Inoltre Croce fu maestro nell’arte della biografia storica. Basta rileggere le Vite di avventura di fede e di passione, o anche consultare i cataloghi dei libri da lui posseduti e collezionati, per rendersi conto dell’importanza che attribuì alle rievocazioni della vita di individui più o meno noti. Soprattutto a questi ultimi, agli ignoti e dimenticati, come quando, parlando degli esuli italiani, raccomandò di rivolgere l’attenzione «sugli uomini oscuri» piuttosto che su quelli famosi. Che biografia e autobiografia conservassero un rilievo straordinario nella ricerca crociana appare dunque un dato di fatto incontestabile, una verità largamente provata. Ma è anche vero che lo stesso Croce, nella considerazione teorica, negò ogni realtà all’individuo come tale e, sia pure con oscillazioni e complicazioni varie, sempre sottolineò che la biografia è storia e, aggiungeva, «ogni storia è biografia». Più precisamente, fin dai frammenti di etica che compose dal 1914 affermò che l’individuo esiste solo nelle opere effettivamente compiute e nella Filosofia della pratica conferì a questa tesi un particolare fondamento speculativo, chiarendo la fisionomia dell’individuo come insieme di abiti volitivi e nella dialettica della volizione e delle passioni. Questo doppio registro – la pratica dell’autobiografia e delle biografie, da un lato, la negazione dell’individuo dall’altro – sembra generare una strana antitesi, quasi una sensazione di instabilità e di incertezza, che in effetti ha spesso attirato le critiche degli interpreti – da Giovanni Amendola a Nicola Abbagnano agli altri che Musci ricorda puntualmente, quali Arnaldo Momigliano e Pietro Citati –, come se Croce, su un punto così importante della sua filosofia, si fosse malamente contraddetto. L’influenza non secondaria che l’esistenzialismo ha esercitato sulla cultura italiana, a partire dall’inchiesta di «Primato» del 1943, e il peso che esso ha avuto in tutta la stagione segnata dalla reazione contro la così detta “dittatura dell’idealismo” (espressione coniata da Remo Cantoni in due articoli sul «Politecnico» del 1947), acuirono ulteriormente l’impressione di questa pretesa antinomia crociana e le proteste che ne derivarono.
Come scrive Michele Ciliberto nella postfazione, «l’opera, nessuna opera, esaurisce l’individuo» (p. 156). Musci esplora per ogni dove questa tensione del pensiero di Croce e, molto opportunamente, adopera strumenti e categorie appropriate per provare a scioglierla: si riferisce alle pagine di Heinz Kohut su The Search for the Self, al concetto di «tecnologia del sé» («technology of self» o «souci de soi») di Michel Foucault (p. 25), al nesso stabilito da Freud tra angoscia e rimozione (pp. 35-36). E con sagacia rinvia al Mondo magico di Ernesto De Martino (pp. 18-19), dove la crisi della presenza e il dramma del suo riscatto sembrano rappresentare l’intero processo di formazione della filosofia crociana: «nella vicenda crociana – scrive Musci –, la tenacia costruttiva dell’opera è il rito per il riscatto dall’irrazionale, la creazione di una nuova presenza, che sembra tradurre in fieri l’esortazione freudiana: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”» (p. 20). Che l’individuo non abbia realtà oltre l’opera che realizza, non significa, insomma, che la costituzione della soggettività (di quella “opera” che lo oltrepassa e lo compie) non sia sempre insidiata dalle ombre dell’angoscia e del negativo, dal rischio perenne della frammentazione e dello smarrimento. Autobiografia e biografia indicano, in tale senso, il processo dinamico di costruzione del soggetto, che è sempre “catarsi” in atto di quelle passioni, di quella vitalità immediata, che non è mai garantito dalla minaccia della perdita di sé. L’immagine di tale movimento genetico è bene indicata, d’altronde, dall’articolo del 1941 sulla “Loica” nei tarocchi detti del Mantegna, a cui Musci dedica un capitolo molto felice (pp. 121-148), pieno di spunti iconografici e warburghiani: anche la figura dei tarocchi – che Croce affisse a una parete della sua stanza da studio in ossequio alla «santa» Logica e alle virtù del sillogismo – riporta a questo nodo, al «sordido mostro» e al «gesto istintivo» della mano destra «di chi vuole allontanare da sé qualcosa che gli ripugna».
Il vecchio cliché di un Croce olimpico ed erasmiano (che Gramsci usò in un senso tutto diverso) impediva di penetrare nel carattere drammatico di questa filosofia, sempre sospesa, con atteggiamento affine all’antico stoicismo, tra la costruzione della ragione e il rischio estremo della frammentazione. Musci ha il merito di mostrarci, in modo nitido e al tempo stesso con spirito critico, questo nucleo generativo della filosofia crociana, dove la forza del pensiero si compone con quella della biografia e dell’autobiografia, senza che ciò comporti il ritorno di quell’individuo, sostanziale e indipendente dall’opera, sempre cercato e immaginato e mai trovato dalle ricorrenti ansie esistenziali. L’individuo è nella storia, come sosteneva Croce, ne è artefice e prodotto, ma la sua soggettività (la sua opera razionale) è sempre minacciata dall’orizzonte pericoloso della natura e della vita, che egli stesso ha edificato e che lo circonda e lo penetra, imponendogli il compito perenne della costituzione della propria presenza. Anche qui (come nel caso, richiamato prima, della filologia) troviamo una tesi di valore generale, che è importante per lo studio di Croce ma che lo travalica e che, tutto sommato, appartiene alla ricerca filosofica come tale. Come nel caso di Croce, ricostruito da Musci, potremmo dire che la filosofia ha sempre il carattere dell’autobiografia, di una decifrazione del proprio passato e, in maniera particolare, delle ferite angosciose che il passato ci trasmette. È questo negativo, per sé doloroso, che accende la scintilla del pensiero e mette in moto il bisogno di chiarezza che chiamiamo filosofia. Si può ritenere, naturalmente, che il passato angosciante sia rappresentato dal terribile terremoto di Casamicciola o dalla morte, altrettanto terribile, dell’amata Angelina Zampanelli, che pure sconvolse gravemente la vita di Croce. Ma nel punto più intenso l’autobiografia filosofica tocca qualcosa di meno privato, di più comune, che appartiene al destino di una generazione e che ha il carattere della storia più che della vita individuale. In Croce fu la catastrofe di una cultura, e persino di una civiltà intera, alla quale era stato precocemente educato e allevato, che lo condusse a rielaborare i princìpi della libertà e del liberalismo, pronunciando un’autocritica estesa della vecchia classe dirigente che, di fronte alla dittatura, aveva abdicato al proprio dovere. Ma così accade, a ben vedere, a tutti i grandi pensatori e filosofi, da Machiavelli dinanzi alla crisi degli Stati italiani al Gramsci che, tratto in arresto, meditò e portò all’altezza del pensiero la sconfitta storica del movimento operaio europeo. E si potrebbe continuare, provando a tessere la tela che Musci ci propone in questo ottimo libro, mostrando con altri esempi come la filosofia svolga sempre il compito dell’autobiografia, ma anche come i grandi pensatori siano tali perché elaborano il lutto dell’Io pubblico e comune, del Sé storico e civile, le ferite profonde di una generazione, assai più delle tragiche vicende che inevitabilmente colpiscono e stravolgono i sentimenti privati e l’equilibrio della propria vita.