Recensioni / Il Vangelo secondo Pascal

Sui banchi di scuola ci insegnava a distinguere l’esprit de géométrie dall’esprit de finesse: per vendicare, nelle ore di filosofia, quelli che non avevano la sufficienza in matematica. E indurre a sottili, evanescenti fantasie, quelle che, al rigore implacabile delle coordinate cartesiane, preferivano i vaghi languori della “canna al vento”, la “canna pensante”. Meglio allora rendere giustizia a Blaise Pascal (1623-1662), geometra rigoroso ai tempi di Réné Descartes (il Cartesio che diede gli aggettivi alle semirette x e y) e scienziato “duro” educato dal babbo insigne fisico prima che dai logici maestri della scuola di Port Royal. Oltretutto, la pensosa (e ventosa) “finezza”, auspicata per quella “canna” cui corrisponde la celeberrima definizione dell’uomo data nei Pensieri, non era tanto, nelle visioni del filosofo francese, esposta a romantiche bufere. Piuttosto, al confronto con l’infinito del Padre Eterno: affrontato da Pascal con la fede del devoto e la buona volontà del convertito.
Ma neanche dopo l’incontro con gli ideali di Giansenio (avvenuto nel 1646), né dopo la conversione (datata 1655) a quella forma di cristianesimo austero che il teologo olandese aveva predicato, Pascal abbandonò gli studi fisici e lo spirito geometrico delle scienze esatte. Prova ne sia che nel ’47 pubblicò gli Esperimenti intorno al vuoto e nel ’54, già preda del fervore religioso, redasse imprescindibili trattati sul calcolo infinitesimale e delle probabilità.
Ma c’è una prova anche più schiacciante di come per il pensatore toccato dalla Grazia “finezza” facesse rima con “esattezza”: al punto da indurlo a ricorrere al computo numerico e alle commensurabili certezze della matematica perfino per “prendere le misure” del Figlio di Dio. La dimostrazione – storicamente, se non sperimentalmente, verificata - è fornita da un documento prezioso, il cui valore aumenta in relazione direttamente proporzionale al mistero che da trecentocinquant’anni lo avvolge.
Scritto nel 1654, il Compendio della vita di Gesù Cristo scomparve subito dopo la sua – incompiuta – stesura. Per riapparire postumo e da 200 anni inedito solo nel 1854, in un unico esemplare autografo, ed essere finalmente pubblicato su un’oscura “Revue Ecclésiastique”, destinata ad ecclesiastica, ergo ristrettissima, circolazione. Promosso a dignità teorica solo nel 1991 dall’eccellente edizione critica delle Oeuvres Complètes pascaliane curate da Jean Mesnard, il Compendio festeggia ora in Italia il suo 350° anniversario, con l’eccellente traduzione e curatela che Michele Ranchetti ha apprestato per l’editore Quodlibet: 66 pagine da leggere al prezzo di 9,50.
Ecco: del capolavoro sconosciuto di Pascal abbiamo dato quasi tutti i numeri. Alle cifre mancanti pensa l’autore, che nei 354 stringatissimi capitoletti - o microparagrafi o, evangelicamente, versetti - in cui riassume la vita del Redentore, riporta con una precisione al limite dell’acribia, i giorni i mesi gli anni che segnano l’età storica, che ritmano l’avventura terrena del Figlio dell’Uomo.
Era il 24 settembre dell’anno 2 a.C. – ma ormai per il passaggio all’era cristiana si contavano i mesi: ne mancavano 15 – quando, sotto l’impero di Cesare Augusto e sotto il regno di Erode in Giudea, Gabriele annunciò a Zaccaria, marito di Elisabetta, la nascita di Giovanni il Battista Precursore del Messia. Poco più tardi, “sei mesi più tardi”, lo stesso angelo avrebbe annunziato alla vergine Maria la nascita di Gesù. Era il 25 marzo: esattamente nove mesi prima del Santo Natale.
I conti tornano. E, calendario alla mano, Pascal chiarisce il mistero dell’Immacolata Concezione (che la liturgia, inverosimilmente, celebra l’8 di dicembre) anche ai più renitenti ad accogliere il sacro dogma. Non è però ai fini del proselitismo o della verifica storiografica che Pascal procedette con piglio metodico tanto inappuntabile. Né per un’estrema (blasfema?) concessione alla propria passione mondana per la scienza. Lo svolgimento dell’esistenza del Cristo gli appariva, invece, tanto simbolicamente significativo che non un solo istante di quella vita storica eppure divina poteva essere stato ai suoi occhi privo di senso e dunque trascurabile: di qui, suggerisce Ranchetti nella puntualissima presentazione, “una successione cronologica senza vuoti”.
Eppure è con sublime finesse che il pensatore cristiano distingue le fasi di crescita e maturazione della carne dal tempo della rivelazione del Verbo: “Gesù condusse la sua vita nascosta dai dodici anni fino ai trentuno”, fino all’ora in cui giunse “il tempo della predicazione”, scriveva Pascal trentunenne, scandendo la propria narrazione sugli attimi salienti della storia della Salvezza. Né va negato che, redigendo il proprio “compendio”, il filosofo osservasse anche quelle regole oscuramente dettate a chi sia dotato di un senso per lo stile della scrittura narrativa, oltre che dello scrupolo per la fedeltà alla Scrittura biblica. Perciò il testo pascaliano più che un “riassunto” è un racconto: sorvola sui dettagli dei miracoli (evocati sbrigativamente con abbondanza di “etc.”), dà per scontati o evoca appena capitoli risaputi dalla lettura assidua dei Vangeli. Indugia invece con pietas commossa sui momenti più drammatici della Passione: rallenta la narrazione, ne frantuma con gli a capo la continuità, spezza la prosa in versi - “Si allontana un poco da loro, / Di circa il getto di una pietra. / Prega. / La faccia a terra. / Tre volte…” -, per recitare la Novella con il lirismo della poesia, o l’intensità di una preghiera, o la suggestione visionaria di una sacra rappresentazione.
Se un genere si deve attribuire al testo più misterioso di Pascal, lo diremmo più volentieri letterario che esegetico. Lo scritto non è però estraneo all’andamento dialettico della filosofia: ai dubbi, le domande, l’ansia di spiegazioni che la raison risveglia anche nel più fedele dei teoreti. “Forse” Gesù preferisce Pietro “perché non è di coloro che aspiravano al primato”, azzarda il filosofo per ipotesi. E al suo prediletto, dopo il rinnegamento, Cristo rivolge uno sguardo pieno di dolore, ma “interiormente, perché Gesù e Pietro erano in luoghi diversi, da dove non potevano vedersi”, precisa il narratore per amor di coerenza. C’è, infine, Padre e Padre, “perché Dio è altrimenti Padre di Cristo e di noi: Egli è Figlio per natura e noi per adozione”, spiega Pascal. Testimoniando ancora una volta, senza smentirsi, che “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende”. E viceversa.