Recensioni / I gioielli dello scultore

In occasione della sua prima sala personale alla Biennale di Venezia del 1958, Nino Franchlna regala a sua moglie Gina Severini, figlia dell'artista futurista, un gioiello realizzato da lui stesso. Nei suoi monili, perlopiù doni per la moglie, utilizza il ferro, spesso unito all'argento, che plasma con la fiamma ossidrica come vere e proprie sculture. Per Franchina si tratta di dare un senso linguistico nuovo alla scultura, lontano dalla fredda e figurativa monumentalità. Valentina Raimondo pubblica uno studio sull'opera dello scultore di origini friulane servendosi delle carte dell'Archivio Severini/ Franchina, nella parte conservata nell'atelier dell'artista in via Margutta a Roma, che l'autrice ha contribuito a ordinare. Un capitolo importante della monografia riguarda il periodo milanese. Si evoca anche l'amicizia con Guttuso, con il quale giunge a Roma e, nel 1937, espone alla Galleria della Cometa. La prima fase della ricerca prende luce da alcuni manoscritti inediti. Con il dopoguerra si apre un'epoca densa di dibattiti definiti anche da un carteggio con il critico Giuseppe Marchiori. Franchina è uno dei primi artisti a riflettere sul rapporto tra arte e industria in un'epoca di ricostruzione dell'Italia, tanto che alla fine degli anni '50 inizia a collaborare con le officine dell'Italsider di Cornigliano, con le quali esegue lavori su scala urbana, come Commessa 60124, alta 15 metri. Si tratta di punti nodali che riguardano la sua opera, ma anche la scultura nella seconda metà del '900, che il volume affronta con chiarezza e passione ben ancorate alla messe di documenti.