Il suo jazz di New Orleans
aveva «scaldato» l'atmosfera
ovunque partendo dai bordelli
della gloriosa Storyville per
arrivare perfino a Buckingham
Palace. Per questo Jelly
Roll Morton (1890-1941)- pianista,
magnaccia, strepitoso
raconteur e tante altre cose ancora
- aveva scritto sul suo biglietto
da visita «inventore del
jazz». Le sparava davvero grosse,
Jelly Roll, ma giocava le
sue storie sempre su un fondo
di verità, e in realtà nessuno
all'epoca suonava il pianoforte
come lui: ragtime, boogie,
«stride», suoni particolari e
«strani». Per questo Alan Lomax
(insieme al padre John,
uno dei più competenti etno -
musicologi di tutti i tempi)gli
ha dedicato il gustoso volume
Mister Jelly Roll (Quodlibet,
pagg.364, euro 25)sottotitolato
Vita, fortune e disavventure
di Jelly Roll Morton, creolo di
New Orleans «Inventore del
jazz», che è un vero e proprio
libro di avventure.
Cantava cose tipo: «Mister
Jelly Roll alla sua vecchia tastiera
è assolutamente regale».
E nel 1938, quando registrava
i suoi brani come documento
per la Biblioteca del
Congresso, era particolarmente
carico da buon istrione
qual era. Il vestito da 100 dollari
gli calzava a pennello; l'orologio
da tasca e gli anelli erano
d'oro e il suo famoso diamante,
incastonato in oro su
un incisivo, brillava come un
lume a gas. Per non parlare
delle sue giarrettiere, anch'esse
tempestate di diamanti. Era
un gagà dell'epoca e Lomax
descrive così quel momento.
«Il suo sorriso di diamante illuminò
la sala oscura, quando
cominciò a evocare i suoi felpati
ritmi da osteria dal pianoforte
a coda. "Lo senti questo
riff?", disse. "Ora lo chiamano
Swing, ma è solo una piccola cosa che ho inventato un sacco
di tempo fa. Già, credo che
quel riff siam tanto vecchio
che ormai gli sarà cresciuta la
barba. Qualunque cosa suonino
oggi quei ragazzi, non fanno
che suonare del Jelly
Roll"». Jelly Roll suonava e si
raccontava a ruota libera al registratore,
narrando la storia
(secondo la sua immaginifica
versione) dell'hotjazz, nato ai
primi del '900 all'incrocio tra
il limaccioso Mississippi e il
Golfo Azzurro... Jelly ricorda il
ragtime, il boogie, tutti i musicisti,
detti «i ragazzi», che avevano
le loro «mammine», ovvero
«puttane di quart'ordine»,
che lavoravano anche come
cameriere nelle case dei
ricchi. A 14 anni Ferdinand LaMothe
(questo il suo vero nome,
perché era di origine francese,
ma lo cambiò in Morton
perché non si capisse la vera
origine) si adattava a fare simili
mestieri e a lavorare presso
un bottaio. Ma all'epoca - secondo
il suo ego ipertrofico -
era già considerato uno dei migliori
pianisti della città e aveva
capito che suonando nei locali
malfamati avrebbe guadagnato
di più che facendo un
lavoro normale.
Nel 1904 vagava già di locale
in locale e di città in città suonando
brani come il blues Alabama
Bound, entrato nella storia
come un classico proveniente
dalla tradizione. Ma Jelly
Roll raccontava di averlo
scritto lui stesso. «Quando
giunsi a Mobile, nel 1905, misi
per iscritto Alabama Bound,
che piacque molto a tutti i
miei amici», scrive. E per amici
intende storici pianisti quali
Thomas «Baby» Grice e Frazier
Davis o Porter King, per il
quale scrisse un altro pezzo,
divenuto un traditional, come
King Porter Stomp. Di quest'utlimo
pezzo ha raccontato,
giocando con la storia: «Per
quanto mi riguarda, non so cosa
stia a significare il temnine
stomp. Voleva solo dire che
chi ascoltava pestava i piedi.
Comunque, quel brano è divenuto
di gran lunga il preferito
di tutte le formazioni hot del
mondo, se sono capaci di eseguirlo.
Ancora oggi ha portato
alla fama molte orchestre importanti,
e altri brani di successo
utilizzano elementi di King
Porter Stomp per riuscire meglio.
Nel 1905 scrissi anche
You Can Have It, I Don't Want
It, che divenne il primo successo
del signor Clarence Williams.
Lui se ne assunse la paternità,
benchè fossi stato proprio
io a insegnargli come si
suona». I suoi racconti sulla vita
nel ghetto di New Orleans
sono impressionanti; nei locali
baldorie pazzesche e risse
con pistole, coltelli e tanta violenza.
E poi le mitiche band
viaggianti (che aprirono la
strada al jazz), cui si univano
gruppi di agguerriti picchiatori
per scontrarsi con le bande
avversarie. Ogni giorno - tra
una nota e l'altra - si rischiava
la ghirba. Eppure lì Jelly Roll
era un idolo. E non solo lì, ché
divenne una stella anche a
Chicago (altra città del divertimento
e del vizio) e in tutto il
Paese, e che alla fine degli anni
Venti, alla guida della Red
Hot Pepper Band, cominciò a
veder girare soldi veri con
tournée in tutti i locali più quotati
del Midwest. E poi c'erano
i dischi che vendevano a profusione,
perché era entrato nella
prestigiosa scuderia Victor,
che li pubblicizzava come
quelli della «band Hot Numero
Uno».
Insomma, era una star di prima
grandezza e incideva canzone
dopo canzone senza mai
sbagliare un colpo. Ma in fondo
in fondo artisticamente era
un puro; era uno dei pionieri
del jazz e voleva che questo
fosse suonato nell'autentico
stile di New Orleans, e fu proprio
questo che paradossalmente
segnò la sua fine.
Il mondo cambiava troppo
rapidamente per Jelly Roll; la
Rca rilevò la Victor e negli anni
Trenta impazzava ovunque
la Swing Era. Il pianista provò a seguire i tempi, ad ampliare
la sua band e a buttarsi sullo
swing, ma con scarsi risultati,
e nel frattempo il boom che lo
aveva portato in alto era clamorosamente
passato. Si trovò
solo contro tutti; le grandi
organizzazioni musicali, i
gangster che gestivano le principali
sale da ballo minacciavano
addirittura di ammazzarlo
se avesse cercato (come probabilmente
faceva) di portare
via i musicisti di New Orleans
per tornare alla vecchia musica.
Persino i ghetti neri lo abbandonarono,
attratti dal
blues e dai bluesmen, che portavano
avanti uno stile più
adatto ai loro tormenti. Ma Jelly
Roll continuava a dire incessantemente:
«Io sono il maestro;
ragazzi, tutto quello che
suonate è Jelly Roll», e non riuscì
mai a capire - da vero uomo
del popolo - se a portargli
via il successo verso Broadway
fu la storia o una maledizione
voodoo.