Raramente la storia parla in
prima persona. Meno che
mai quella della musica popolare,
avvolta quasi per
definizione dalle nebbie della leggenda.
Ecco perché merita dí essere
accolta con tutti i crismi del caso la
prima pubblicazione italiana di Mister
Jelly Roll, per conto di Quodlibet.
Tecnicamente parlando, è una
biografia di Jelly Roll Morton, pianista
della prima generazione del
jazz, quando il concetto stesso del
genere appariva piuttosto vago. Così
vago che, a distanza di qualche
decennio, di fronte alla definitiva
esplosione della cosiddetta "musica
classica nera" nella sua incarnazione
swing, Jelly Roll dirà: «È solo una
piccola cosa che ho inventato un
sacco di tempo fa».
L'autore del testo è Alan Lomax,
l'etnomusicologo più celebre di tutti
i tempi, un signore che girava il
mondo con un registratore a nastro
(negli anni Cinquanta passò pure
per l'Italia) al fine di campionare e
catalogare qualsiasi forma di musica
popolare gli capitasse a tiro. Il libro,
uscito per la prima volta negli
Stati Uniti nel 1950, a quasi dieci anni
dalla scomparsa del protagonista,
partiva da una serie di interviste registrate
negli anni Trenta da Lomax,
ricercatore fresco di nomina della
Biblioteca del Congresso, dove suo
padre John aveva aperto la strada al
particolarissimo filone di studi della
etno-musicologia. Jelly Roll era in
disgrazia, si aggirava peri peggiori
club di Washington e, a bordo pianoforte,
dispensava aneddoti di vita
vissuta nella New Orleans di inizio
Novecento, quando nei bordelli di
Storyville, lungo i tre minuti di durata
dí un pezzo, si azzerava ogni
differenza sociale tra bianchi, neri e
creoli. L'incontro, per Lomax, è una
via di Damasco: fino a quel momento,
da irriducibile appassionato di
folk, bollava come spazzatura commerciale
il jazz. Saranno la musica e,
soprattutto, la parabola esistenziale
di Morton a fargli comprendere che
si sbagliava, che il jazz, prima di diventare
esercizio da big band buono
per le radio, è popular music nata per
strada, giusto all'incrocio che sta tra
blues, ragtime e vaudeville. Jelly Roll
(nomignolo che rimanda alle pudenda
femminili risalente ai tempi
dell'apprendistato tra le signorine
di New Orleans) è creolo di origini
francesi, gira per il Sud, gioca d'azzardo
e ha una dote: riesce a suonare
qualsiasi strumento si trovi davanti.
Eccelle nel piano e, al piano, s'inventa
una maniera di suonare hot che
sta bene su qualsiasi pezzo. Perché
il jazz non è quello che suoni, ma come
lo suoni. Un libro così lo chiami
saggio, ma gli fai un torto perché è
narrativa pura: nello stile, nel ritmo
e nella costruzione. Lomax alterna
i capitoli in cui Jelly Roll parla in prima
persona a "interludi" con ricostruzioni
del contesto in cui l'artista
opera, rafforzati da testimonianze
raccolte sul campo. Lo stratagemma
nasce da esigenze concrete: Morton
ha fama di spaccone, bugiardo seriale
persino nella collocazione della
propria data di nascita (da lui anticipata
o ritardata a seconda di esigenze
storiografiche), il suo racconto va
insomma "sterilizzato" da eventuali
esagerazioni. A cominciare dalla più
celebre: l'auto-attribuzione dell'invenzione
del jazz. Che tanto esagerazione,
col senno di poi, non era.